2a parte

Francesca

Cambiammo nuovamente casa e per qualche mese regnò la pace. Era una villetta su un piano rialzato ad un isolato dalle scuole medie alle quali mi avevano iscritto. Si salivano tre o quattro gradini e si entrava in un largo spazio rettangolare dove c'erano due porte laterali in legno ed una centrale, più grande e a due ante in vetro, che affacciava nel giardino pavimentato pieno di vasi, alcuni molto grandi, con piante che il precedente affittuario aveva preferito lasciare. La camera dei miei genitori era quella a sinistra e di fronte c'era il salotto e la camera da pranzo, collegati alla cucina molto spaziosa. In camera mia si poteva accedere sia dalla stanza dei miei, sia dal cortile, da dove era possibile anche entrare in cucina.

Mio padre tornava presto dal lavoro e cenavamo senza tensione e senza i soliti litigi, urla e rottura di piatti e bicchieri. Tutto filava liscio e io cominciai a dormire tutta la notte, senza l'incubo di svegliarmi per le grida che per anni avevano angosciato i miei sogni di bambino e quell'incubo del labirinto di canne era scomparso, finalmente.

"Fra qualche mese non sarai più solo; avrai un fratellino. Sei contento?"

Con queste parole mia madre chiarì i miei interrogativi su quelle rotondità che, in pochi mesi, l'avevano trasformata in una donna di quasi cinquant'anni grassa e ma raggiante.

I parenti le regalarono una culla fatta in ferro battuto e rivestita con stoffe e fiocchi di color panna, che sistemarono in camera mia, di fronte al mio letto, assieme ad un piccolo armadio dove avrebbero messo tutti gli abitini, i maglioncini di lana, che mia madre aveva già cominciato a fare ai ferri, e il necessario per il bagnetto: asciugamani piccoli e grandi, fasce e pannolini di lino e cotone. Si usavano anche dei rettangoli di stoffa morbida che si mettevano all'interno del pannolino e il bambino veniva imbragato in questa specie di fagotto, per far sì che la pipì non fuoriuscisse; completava la vestizione una mutandina cerata con gli elastici in vita e dove spuntavano le gambine. All'epoca non esistevano quelli "usa e getta" e le maleodoranti strisce di stoffa venivano immerse nell'acqua bollente una prima volta, per poi essere sciacquate e nuovamente lasciate in ammollo in un nuovo contenitore pieno di acqua calda pulita, con l'aggiunta di sapone grezzo a scaglie.

Il parto fu laborioso e i medici dubitarono più volte di riuscire a salvare sia mia madre che la bambina. Non partorì a casa, come si usava allora, dato che avevano già previsto il taglio cesareo per delle difficoltà riscontrate durante la gravidanza. Venne ricoverata presso la clinica Igea, dove operava un medico amico di famiglia, e lo stesso pomeriggio dette alla luce mia sorella. Appena nata Francesca fu portata subito in sala rianimazione, avvolta in un lenzuolo di color verde chiaro. Presentava problemi di respirazione e la conformazione del viso appariva inequivocabile: era affetta da sindrome di Down.

Tra noi nacque subito un sentimento forte e meraviglioso. Non c'era giorno che, appena sveglio, non corressi davanti alla sua culla per mandarle e per ricevere un sorriso. Le compravo piccoli regali insignificanti che lei afferrava e portava subito alla bocca. Per il suo primo compleanno, dopo aver chiesto a parenti e amici qualche spicciolo, le regalai una coperta azzurra e bianca con lunghe frange, che diventò il suo oggetto preferito: le piaceva toccarla, strofinarsela sul viso e anche per prendere sonno.

Stavamo seduti per ore sul pavimento della cucina, dietro al frigorifero dove avevo costruito la nostra tana, e io le parlavo, le porgevo i miei giochi, la facevo ridere con boccacce e versacci, sempre sperando che pronunciasse il mio nome, almeno una volta. Francesca non parlava e non camminava. Teneva la linguetta fuori dalle labbra e dai suoi occhi sorridenti da giapponesina capivo che mi voleva bene e attraverso di loro, a suo modo, rispondeva quando le parlavo o cercavo di farla ridere facendole il solletico sul pancino. Era così felice quando la prendevo in braccio e le facevo fare il giro di tutta la casa, mostrandole gli oggetti che indicavo sillabandone più volte il nome, con la speranza che potesse imparare a riconoscerli.

Ci eravamo trasferiti in quella casa anche per paura che mia madre potesse ripetere il gesto di lanciarsi nel vuoto dalla finestra, come era successo nel palazzo dove vivevamo prima del suo ritorno ad Asmara. Come ho detto, era una villetta e le stanze circondavano un cortile piastrellato, abbellito, oltre che da varie piante fiorite, anche da buganvillee di vari colori, piantate in bidoni di benzina tagliati in due parti e che si erano arrampicate sui muri fino al tetto. Era il cortile da dove avrei visto mio padre, immobilizzato sul letto per un'ingessatura al femore, fare sesso con la sua amante, la stessa alla quale avevo sputato in faccia e picchiato i figli, quel giorno che li vidi entrare nella macchina di mio padre, rimasto ad aspettarli davanti alla scuola che frequentavano.

Ricordo quel giorno che pioveva forte e mio padre, dal letto dove era costretto a restare sdraiato, continuava a urlarmi di rientrare in casa. Mia madre era andata dal medico per far visitare Francesca che, negli ultimi giorni, non mangiava quasi più e continuava a lamentarsi. Io giocavo con delle barchette di carta che facevo navigare nel rigagnolo d'acqua piovana davanti alla porta della cucina.

Ad un tratto sentii i tacchi di mia madre sui gradini di casa e poi sbattere con forza la porta d'ingresso. Lanciò un urlo agghiacciante e, attraverso la porta a vetri del cortile interno, vidi mia madre, completamente bagnata di pioggia, gettare sul letto il corpo senza vita di Francesca, continuando ad urlare la sua disperazione e a battere i pugni sul muro. Ora urlavano entrambi e si picchiavano selvaggiamente, incolpandosi a vicenda. Corsi in camera loro e cercai di dividerli, implorandoli di smettere, di pensare che io ero con loro e che avrebbero avuto un'altra bambina, uguale a Francesca. Mi sembrava di essere immerso fino alla testa in una vasca di acqua ghiacciata; tremavo di freddo e non riuscivo a respirare per il peso che mi schiacciava il petto. Con gli occhi annebbiati guardavo il letto e il corpicino immobile di Francesca. Avrei voluto sciogliermi in quell'acqua gelida e scomparire per non sentirli più. Li odiavo e odiavo me stesso; avrei dovuto accompagnare mia madre dal dottore. Francesca non mi avrebbe dato quel dolore di morire tra le braccia di mia madre. Ero certo che mi avrebbe parlato e mi avrebbe chiesto di darle la mano e di farla scendere per camminare vicino me, forse anche correre, verso un mondo nostro, fatto solo di sorrisi e di amore.

La sala da pranzo è piena di gente che parla a bassa voce. Qualcuno piange in silenzio e altri parlano sottovoce, ma una parola circola tra tutti: "poverina, così piccola". Sul tavolo, ricoperto da un lenzuolo, c'è una piccola bara bianca, con ricami e pizzi, anch'essi bianchi, che sporgono dall'interno. Dentro c'è la mia sorellina e sembra sorridermi. Mi avvicino e le do un bacio sulle labbra fredde, poi torno in camera e cerco nei cassetti una foto mia. La trovo, è quella fatta assieme a mia madre per il passaporto. Strappo la parte dove ci sono io e, dopo aver fatto un buchino per fare entrare uno spago dorato, gliela lego al polso. È ancora più piccola di quando era viva. Ha poco più di un anno e dieci meno di me, ma è come se avessimo sempre giocato insieme. Qualcuno mi rimprovera e le strappa la mia foto dal braccino. "Queste cose non si fanno; portano male".

Rimango in piedi, vicino alla piccola bara, fino a quando non mi costringono ad uscire. Non voglio andare via. Voglio starle ancora vicino, sperando che si risvegli e che mi sorrida. Ma mi prendono in braccio e mi portano in un'altra stanza, proprio mentre qualcuno entra nella camera da pranzo con una bombola in mano e un attrezzo che mi ricorda quello degli stagnai.

Non la vidi più.

Al ritorno dal funerale mi sedetti dietro al frigorifero, la tana che avevo sempre condiviso con Francesca, e rimasi in silenzio a pensare a lei, a noi.

Ricordo che alla cerimonia funebre c'erano tante persone all'interno della chiesa e molte altre aspettavano fuori che la piccola bara bianca venisse trasportata giù dai gradini della Cattedrale e caricata su una macchina nera, lucidata a specchio. Venne sepolta nel piccolo cimitero di Asmara, dove forse riposa ancora oggi.

Osservo gli occhi del vecchio dalla barba e dai capelli bianchi. È rimasto sempre chino su di me, e mi accorgo che ha gli occhi velati di pianto. Continua però a sorridermi e posa la sua mano sulla mia.

"Vai avanti, parlami ancora della tua vita"mormora con un sottile filo di voce, mentre mi accarezza la fronte.

Sono io ora che chiedo a lui: "ma cosa è successo? dimmelo, ti prego. Francesca è davvero morta, o è stato solo un brutto sogno?"

Mentre la sua mano scorre sul mio viso, cerco di afferrarla e di stringerla, ma è come se raccogliessi il vento, un vento caldo e rassicurante, come la sua barba bianca e i suoi occhi intensi e profondi.

Non mi risponde a sento un bacio quasi impalpabile sulla fronte.

Dove ero rimasto? Non lo ricordo più. Un dolore forte mi attraversa il petto e risveglia quei momenti così tristi del mio passato: Francesca, mia sorella, è morta davvero e la colpa è solo loro!

Io non sapevo che fosse malata, che fosse una bambina mongoloide e sono certo che, se le fossero stati vicini con il loro amore e con le dovute attenzioni, forse oggi sarebbe ancora vicino a me.

Dopo la morte di mia sorella le cose tra i miei genitori peggiorarono e mia madre cadde in una profonda depressione che la costrinse ad una cura che la faceva dormire anche di giorno. Mio padre, non appena gli fu tolto il gesso, ricominciò la sua vita di sempre; lavorava sino a tardi e non ho ricordi di cene consumate tutti insieme dietro ad una tavola apparecchiata. Anche la domenica trovava il pretesto per non essere presente: un lavoro improvviso, una partita a bridge alla Casa degli Italiani o semplicemente usciva la mattina e, se andava bene, lo sentivo rincasare a notte inoltrata, se non addirittura all'alba, solo per lavarsi e cambiarsi d'abito. E poi le notti intere trascorse nel dormiveglia in attesa del suo rientro e di una probabile lite con mia madre, accompagnata dalle urla, dal suono delle sue mani che la colpivano e dal pianto di lei, ormai assuefatta a quella vita priva di significato e carica di odio che l'aveva resa schiava di un uomo che non le faceva altro che del male, sia fisico che morale.

Quella casa, ogni oggetto, le ricordavano Francesca e costrinse mio padre a traslocare. Questa volta, grazie alle sempre maggiori entrate provenienti dagli intrallazzi con il suo amico Truman, il direttore della ditta di spedizioni, ci trasferimmo in una magnifica villa a due piani con un grande giardino. Era fatta di mattoni rosso scuro e aveva le finestre di vetro lavorato a piombo, con disegni liberty, cosa non usuale nelle abitazioni di Asmara. Un piccolo viale, fiancheggiato da enormi vasi di cemento con fiori multicolori, divideva il cancello d'entrata dalla porta d'ingresso in legno e vetri. Tutt'intorno aiuole di gerani, viole, calle, gladioli e bouganvillee e, lungo la recinzione in ferro battuto, una lunga siepe di gelsomino. In mezzo ai due giardini e a fianco del viale, due alberi di pepe selvatico.

All'interno della casa le pareti erano coperte da pannelli di legno dello stesso colore delle porte e un corrimano a gomito portava al primo piano, nella zona notte. A piano terra un doppio salone, diviso da due enormi zanne di elefante che partivano dal pavimento e toccavano quasi il soffitto, e lo studio di mio padre, la sala da pranzo e un'enorme cucina dove c'era un pannello elettrico sopra il lavandino, con dei numeri all'interno che si sollevano e corrispondevano alle stanze o ai bagni da dove si suonava il campanello per chiamare la servitù.

Visto che ora avevamo un giardino, chiesi ed ottenni di avere un cane, il mio sogno da sempre. Volevo un compagno con cui giocare, al quale sentirmi legato e che fosse accanto a me tutto il giorno e anche di notte. Milord, un volpino bicolore, dormiva vicino al mio letto e non mi abbandonava un secondo. Mi seguiva sempre, anche quando raggiungevo i soliti amici della piazzetta, con i quali dividevo le sigarette rubate dal cassetto della scrivania di mio padre.

A scuola ci andavo in bicicletta, una Legnano verde acqua con manubrio "condorino" e cambio campagnolo che mi avevano regalato gli zii. Frequentavo la seconda media e avevo grosse difficoltà ad allinearmi al programma dei miei compagni, sia per le vicissitudini di quegli ultimi due anni, che mi avevano costretto a non frequentare la scuola per lunghi periodi, sia anche e soprattutto per il mio totale disinteresse per lo studio. Spesso marinavo la scuola e scappavo con il mio amico del cuore, Paolo Rumas, sulle colline che circondavano il collegio S. Anna, dove c'erano delle piccole grotte infestate da pipistrelli. Ci calavamo in una di queste e passavamo il tempo, in attesa della fine delle lezioni, fumando sigarette e fantasticando su modifiche che avremmo potuto apportare alle nostre biciclette per renderle più appariscenti e veloci.

Quell'anno, grazie alle suppliche di mia madre al preside, che conosceva da tanti anni e che sapeva della nostra situazione familiare, fui promosso; con l'impegno però che mi avrebbe fatto prendere delle ripetizioni del programma scolastico per tutto il periodo delle vacanze. Solo in questo modo sarei forse riuscito a mettermi in linea con il programma e pronto all'esame che avrei dovuto sostenere al termine del successivo anno scolastico.

Nonostante le lezioni private, iniziai la terza media e mi accorsi subito che non capivo nulla di quello che gli insegnanti spiegavano in classe, soprattutto matematica, che era sempre stata per me la materia più ostica. Al termine del primo trimestre i risultati erano pessimi e mia madre venne convocata dal preside.

Fu molto esplicito: "Giovanni è sempre molto svogliato e quello che ha imparato durante le vacanze non è comunque giovato a nulla; in pratica non credo che verrà promosso alle scuole superiori, se i risultati riportati in questi tre mesi rimarranno inalterati sino alla fine dell'anno scolastico."

La punizione fu di togliermi la bicicletta e il divieto di frequentare gli amici della piazzetta. Così la mattina andavo a scuola a piedi, oppure sulla canna della bicicletta di qualche amico che vedevo passare. A volte chiedevo a mio padre di accompagnarmi o di venirmi a prendere, ma trovava sempre una scusa per non farlo.

Un giorno, al termine delle lezioni, mi ero fermato a giocare a biglie sul cortile di terra della scuola e avrei fatto sicuramente tardi per il pranzo. Chiesi, quindi, a un compagno di accompagnarmi a casa sulla canna della sua bicicletta. Dovevamo percorrere il lungo viale che portava in corso Italia e da lì deviare verso la residenza del console italiano, passando davanti all'istituto per geometri Bottego. Appena imboccata la strada in discesa, mi sembrò di vedere la macchina di mio padre parcheggiata all'angolo della scuola, ma mi dissi che non era possibile, dato che mi aveva più volte ripetuto quella mattina che avrebbe lavorato fino a tardi e che non sarebbe neppure tornato a casa per pranzo. Avvicinandomi, però, quella Opel gialla diventò sempre più riconoscibile, anche perché non ce ne erano altre uguali ad Asmara e, a distanza di qualche decina di metri, riuscii anche a vedere di spalle mio padre, appoggiato allo sportello, che parlava con una donna alta dai capelli neri e lunghi. Chiesi al mio compagno di accostare e di farmi scendere; sarei tornato a casa da solo. Mentre saltavo giù dalla canna della bicicletta, lo vidi allontanarsi assieme a quella donna e salire la scalinata dell'istituto, da dove correvano giù i ragazzi con il pacco di libri sotto al braccio, legati dalla cinghia di gomma con i ganci, come si usava allora. Due di loro si diressero verso mio padre e, dopo aver baciato la donna, sorrisero a mio padre e tutti e quattro si avviarono verso la macchina.

Avevo sentito della sua nuova amante dai pettegolezzi di alcune signore, una delle volte che ero stato costretto ad aspettare che mia madre finisse la sua partita a canasta alla Casa degli Italiani, mentre giravo intorno ai vari tavoli da gioco occupati prevalentemente da persone di una certa età. La descrivevano come una gran bella signora, separata e con due figli di quattordici e sedici anni, che spesso andavano a trovare il padre ad Addis Abeba, soprattutto durante le vacanze. Corsi verso la macchina che stava per ripartire e li raggiunsi. Il finestrino del passeggero era aperto e sputai con tutta la forza che avevo in corpo sulla faccia di quella donna che mi stava osservando con un misto di incredulità e di paura.

Lui frenò di colpo, andando a finire con una ruota sul marciapiedi, e uscì dall'auto, assieme ai due ragazzi che erano seduti sul sedile posteriore. Il primo, il più grande, si avventò contro me e io prontamente gli sferrai un calcio all'inguine che lo fece piegare in due e cadere per terra urlando, mentre il secondo rimase in piedi abbracciato alla madre che, nel frattempo, era scesa e urlava come una pazza. Evitai mio padre che cercava di prendermi per un braccio e allungai un pugno in faccia al ragazzo più giovane, ma mi sbilanciai e rotolai a terra. Mio padre alla fine mi raggiunse e mi diede un calcio in culo e poi una serie di ceffoni che mi tolsero il respiro. Dal negozio di fiori, a pochi metri da noi, un signore, che non riconobbi subito, mi urlò con la sua voce da baritono:

"Prendilo per le palle quel vecchi porco."

Era il marito della migliore amica di mia madre e continuava a inveire contro mio padre, affinché la smettesse di picchiarmi in quel modo. Allungai una mano e strinsi. Lanciò un urlo e indietreggiò, giusto lo spazio per potermi rialzare e correre via come un lampo. Gli avevo fatto male perché, voltandomi per vedere se mi seguisse, notai che si teneva l'inguine con entrambe le mani, mentre lei cercava di aiutarlo a risalire in macchina.

C'erano tutti i miei amici alla festa del mio tredicesimo compleanno: Teresa, il mio grande amore, suo fratello Simone, Paolo il mio migliore amico, Pino, Renato, Gianni, Nadette con le sue amiche e altri amici di cui non ricordo più il nome. Mia madre aveva organizzato le cose in grande, comprando gli ultimi 45 giri del momento e facendo arrivare dalla pasticceria del centro, oltre alla torta con le tredici candeline, pasticcini e stuzzichini di ogni tipo. Ballavamo il twist sulle note delle novità di quell'anno: Twist again, Ventiquattromila baci, e una canzone di Domenico Modugno che diceva che il peso sulla luna era la metà della metà. Ma non mancavano i lenti, rigorosamente ballati con le ante delle finestre chiuse e a luci spente. Ricordo la mia canzone preferita e che avrei voluto ballare con Teresa per tutta la vita: Put your head on my shoulder.

Quella villa era davvero bellissima e io avevo una stanza tutta per me al primo piano, da dove una finestra si affacciava sui giardini e sui due alberi di pepe selvatico che mandavano un odore pungente e dolce allo stesso tempo.

Anche il giardino era stato addobbato per la festa con palloncini colorati e stelle filanti e noi giocavamo a rincorrerci, mentre dal salone proveniva la musica a tutto volume. Non volevo far altro che divertirmi e non pensare che, di lì a pochi mesi, avrei lasciato quella casa, forse per sempre. Mio padre aveva preso la decisione che avrei dovuto studiare lontano da Asmara, in Europa, in una scuola che avrebbe dovuto darmi un insegnamento e un'educazione degni della sua attuale posizione sociale. Aveva scelto un collegio nella Svizzera tedesca, non lontano da Zurigo. Avrei ripetuto la terza media con professori che mi avrebbero seguito e impartito lezioni private, anche se non ce ne sarebbe stato forse bisogno, essendo ogni classe composta da cinque o sei studenti al massimo.

Ballammo per tutto il pomeriggio e, quando gli amici se ne andarono, rimasi seduto in cucina con mia madre che, aiutata dalla donna di servizio eritrea, sistemava nel frigorifero le cose avanzate e cercava di convincermi, senza crederci in fondo nemmeno lei, che mi sarei trovato benissimo in quella scuola straniera, dove avrei conosciuto tanti nuovi amici di diverse nazionalità. Avrei perfezionato il mio inglese scolastico ed imparato, chissà, anche qualche altra lingua straniera.

Mio padre, pur essendo stato sempre un contabile, qualche anno prima aveva voluto giocare a fare il proprietario terriero, prendendo in concessione una piantagione di banane al confine tra l'Eritrea e il Sudan. Aveva firmato un contratto con il maggiore importatore saudita di banane, a mio avviso più per fortuna che per capacità imprenditoriali, e in poco tempo era diventato uno degli uomini più ricchi di Asmara. Per questo aveva pensato di mandarmi in un collegio di lusso, che pochi si sarebbero potuti permettere; sarebbe stato per lui un ulteriore segno della ricchezza e dell'elevata posizione sociale che era riuscito a raggiungere in così pochi anni.

Il Montana prima parte

Partimmo con l'aereo per Roma alla fine di settembre; da lì avremmo preso la coincidenza del volo per Zurigo. Arrivati in Svizzera, mio padre non volle prendere il treno per Zug, che era distante solo una quarantina di minuti dalla stazione di Zurigo, come gli era stato suggerito di fare. Da Zug saremmo potuti andare con l'autobus fino alla stazione della funicolare che portava allo Zugerberg. Mio padre preferì prendere un taxi direttamente all'aeroporto e, dopo quasi un'ora, l'autista ci fece scendere davanti all'ingresso dell'Istituto Inter-nazionale per Ragazzi Montana Zugerberg. Ricordo ancora la grande insegna posta sulla strada: Knaben-Institut Montana Zugerberg.

La scelta del collegio svizzero era stata dettata da molteplici ragioni, ma le principali erano due: per prima cosa era un posto molto lontano da Asmara e quindi da lì non sarei potuto scappare, come avevo fatto dal Toppo Wasserman di Udine e dal collegio La Salle e poi lui che poteva vantarsi nel dire di avermi messo in uno dei migliori collegi europei e che la spesa mensile era veramente notevole, quasi principesca, e dimostrare quanto tenesse a me. L'ostentazione era un altro dei suoi difetti.

Mancava un'ora all'arrivo del direttore, così mio padre decise di aspettare nel ristorantino vicino alla funicolare. Ci sedemmo ad un tavolo e lui, senza che io glielo avessi chiesto, ordinò una tazza di cioccolato caldo per me e un caffè per lui.

"È il paese della cioccolata. Devi assaggiarla, è buonissima."

Avevo tredici anni compiuti da poco e mi sembrava impossibile che avrei avuto il coraggio di affrontare quella forzata solitudine, così lontano dall'affetto di mia madre ed anche da quello di mio padre, ma soprattutto dai miei amici d'infanzia, dai miei cugini e dai ricordi di tanti anni passati in quella città africana a me tanto familiare.

Mi ritrovo a guardare la tovaglia a scacchi bianchi e rossi del ristorantino svizzero; tutte le sedie sono perfettamente disposte davanti ai tavoli apparecchiati e su ognuno di essi c'è un vasetto di fiori freschi e un contenitore con delle salse a me sconosciute. Dalla grande vetrata si vede in lontananza il lago di Zug e a destra la facciata principale del collegio dove, fra poco meno di mezz'ora, verrò consegnato nelle mani di persone che si occuperanno di me e della mia educazione per i futuri sette anni a venire. Non ha nulla a che vedere con il tetro collegio di Udine: questo luogo è pieno di verde, di alberi, di piccole costruzioni di legno, di fiori sparsi sulle colline tutt'intorno alle poche case in muratura, tra le quali spicca quella più grande a quattro piani, dipinta di bianco avorio e con le ante di legno delle finestre color verde. Su una delle pareti una scritta in rilievo, proprio sopra l'entrata: Knaben-Institut Montana.

È la Grosses Haus e ospita i ragazzi degli ultimi tre anni del liceo e al suo interno, oltre alle stanze degli alunni disposte su tre piani, c'è la sala del refettorio, con lunghi tavoli di legno alle cui estremità ci sono delle alte sedie antiche per i professori. C'è anche la cucina, la sala biliardo, l'ufficio del direttore, la sala professori, l'infermeria, la sala musica e le aule della sezione americana. Il direttore si chiama Ostersayer ed è un uomo alto, austero, con occhi piccoli e penetranti, parzialmente nascosti dalle folte sopracciglia.

Siamo nell'ufficio del direttore e lui mi sta parlando con voce rilassante, mentre tiene le braccia distese lungo i fianchi e la testa leggermente inclinata da un lato, con un sorriso falso all'angolo delle labbra sottili:

"Giovanni, vedrai che qui farai molte amicizie. Mancano ancora dieci giorni all'inizio dell'anno scolastico, ma non sarai solo ad aspettare l'arrivo dei tuoi nuovi compagni."

Il suo italiano è perfetto, ma ha un accento strano, cantilenante. Appoggia la mano sulla mia spalla e, dopo averci fatti uscire dal suo ufficio, mi conduce su per le scale che portano al refettorio. È l'ora del pranzo e la sala, dai lunghi tavoli sistemati con ordine, viene illuminata dalla luce del sole attraverso le alte finestre che si stagliano lungo le pareti. In un angolo, solo e immerso nei suoi pensieri, è seduto un ragazzo dai capelli biondi e ricci, con gli occhiali dalla grossa montatura di plastica marrone scuro. Si volta verso di noi, quando il direttore gli appoggia le mani sulle spalle e gli dice che per qualche giorno dividerà la sua stanza con me.

"Giovanni è arrivato oggi dall'Eritrea, un paese lontano quasi quanto il tuo. Sono sicuro che farete subito amicizia."E rivolgendosi a me: "Lui si chiama Angelino ed è anche lui italiano; vive con i genitori in Venezuela."

Mi metto seduto vicino a lui, mentre mio padre si allontana con Ostersayer, probabilmente per parlare dei termini di pagamento della retta e delle altre formalità di iscrizione ai corsi di studio. Dopo pochi minuti sono di nuovo dietro di me e mio padre si china per darmi un bacio e per raccomandarmi di fare il bravo. Prima di congedarsi, tira fuori dal portafogli una banconota di colore blu violetto, sulla quale spicca un cardo dello stesso colore, e me la infila nella tasca dei pantaloni. Un altro bacio sulla guancia, una stretta di mano al direttore e, con passo veloce, si avvia verso l'uscita.

Non sentii neppure il rumore del taxi che si allontanava per riportarlo a Zurigo, da dove avrebbe ripreso il volo per Roma e, chissà, forse, per Asmara.

Angelino è alto per la sua età, credo uno o due anni più di me, ma gli arrivo appena alla spalla. Cammina dinoccolato, con le mani infilate nei larghi pantaloni di velluto a coste e ha le spalle molto strette rispetto al bacino, così da farlo sembrare un rombo, visto da dietro.

"Senti, ti devo rivelare un segreto, ma devi giurarmi che non lo dirai a nessuno" mi dice, mentre cominciamo a incamminarci lungo il viale alberato che dalla Grosses Haus porta al Felsenegg, l'altra costruzione che si affaccia sul lago e che ospita, oltre alle aule della sezione italiana e l'aula magna, gli alunni di età compresa tra i quattordici e i sedici anni.

"Sai, io fumo; ora andiamo in un mio nascondiglio nel bosco e farò provare una sigaretta anche a te."

Scoppio a ridere e mi metto a correre, inseguito da Angelino che, senza saperne il motivo, ride anche lui e assieme ci infiliamo in una stradina che si perde nel bosco di abeti.

"Fumo anche io, da tre anni, quindi il segreto è reciproco"gli dico.

Ora è lui a ridere di gusto, mentre tira fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro e me ne offre una. Non avevo mai provato quelle sigarette. in Eritrea si fumavamo per lo più sigarette inglesi e il sapore della Marlboro è diverso da quello delle Rothmans alle quali ero abituato. Non è affatto male e ne fumiamo almeno tre di fila, nascosti dietro ad un bunker in mezzo agli alberi, prima di tornare a riprendere la mia valigia, che era rimasta nel corridoio del refettorio e a portarla a fatica sulla stretta rampa di scale di legno del Felsenegg, dove ci hanno preparato temporaneamente una stanza con due letti, in attesa della nostra sistemazione definitiva.

Ripongo con cura le mie cose nell'armadio vicino al letto: pantaloni pesanti, calze spesse, due maglioni con disegnati dei cervi e degli uccelli, uno crema e nocciola e l'altro bianco e grigio, e poi camicie di flanella, pigiami dello stesso tessuto, mutande e fazzoletti; tutto con un'etichetta con il mio nome cucita da qualche parte. Era stata mia madre a comprarmi tutte quelle cose in un negozio di Asmara che vendeva articoli di abbigliamento importati dall'Italia e, per ogni capo, chiedeva alla proprietaria se sarebbe stato abbastanza caldo per il clima rigido delle montagne svizzere.

Li accarezzo e mi sembra di accarezzare le sue mani che li ha toccati e poi messi nella valigia e mi viene un nodo in gola nel pensare che non la rivedrò per chissà quanto tempo. Sul mio letto c'è un lungo cuscino arrotolato e ci affondo dentro la mano; è morbido e mi chiedo il perché di un cuscino della lunghezza del letto. Angelino capisce la mia curiosità e mi dice che si tratta di un piumino, un misto tra una coperta imbottita e un lenzuolo, molto caldo e confortevole. Ci appoggio la testa e mi stendo sul letto con le gambe penzoloni sul pavimento, tenendo le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, dove sento scricchiolare tra le dita un pezzo di carta. Mi ritrovo in mano la banconota che mi ha regalato mio padre prima di scappare e la porgo al mio compagno.

"Cosa ci si può fare con questa"gli chiedo.

"Sono venti franchi, un sacco di soldi! Puoi comprarci venti pacchetti di sigarette oppure dieci pacchetti e venti Nussgiepfel"

"Cosa sono i Nussgiepfel?"

"Dei dolci buonissimi, a base di nocciole e pasta di mandorle."

"Allora vada per dieci pacchetti e dieci di quei cosi buoni. Il resto lo tengo per i prossimi giorni."

Il ristorantino è lo stesso dove mi sono fermato a bere la cioccolata calda con mio padre. Ha anche uno spaccio aperto al pubblico, dove si può comprare di tutto: sigarette, dolci, panini imbottiti, cioccolata, bevande e servelat (un tipo di wurstel molto comune in quella zona della Svizzera tedesca). Per farsi aprire bisogna suonare un campanello posto all'esterno della piccola finestra del chiosco, che affaccia sulla strada non asfaltata che porta a Zug e che, d'inverno, viene usata come pista per le slitte.

"Speriamo che venga Ursula o suo fratello Peter"mi dice Angelino. "Se viene il padre, ci possiamo scordare le sigarette."

Suoniamo e dopo qualche minuto la luce all'interno del chiosco si accende, mostrando una piccola figura, con due treccine ai lati della testa e un dolce sorriso che le illumina il viso ricoperto di lentiggini. Avrà più o meno la mia età e parla in una lingua che non conosco. Angelino mastica qualche parola di tedesco e mi strappa di mano i venti franchi e li porge a Ursula, scandendo piano le parole:

"Zehn Marlboro und zehn Nussgipfel".

Lei continua a sorridermi mentre prende la banconota, poi si volta verso lo scaffale e mette in una busta di carta i dolci e la stecca di sigarette. Me la porge assieme al resto, una moneta d'argento da cinque franchi. Sta per chiudere la finestra, ma ci ripensa e, sorridendomi, mi mette in mano un altro pacchetto di sigarette: "Das ist nur für dich ". Un regalo per te, mi spiega Angelino. La ringrazio e la fisso negli occhi, mentre le sorrido e sento come un brivido nello stomaco. Anche lei rimane a guardarmi e poi va via, spegnendo la luce.

Ogni giorno Angelino ed io facciamo lunghe passeggiate nei boschi di abeti e betulle e corriamo sui prati verdi, ancora spruzzati da chiazze di colore degli ultimi fiori dell'estate ormai finita. Qualche volta ci spingiamo fino quasi a Zug e da lì ritorniamo al Montana con la vecchia funicolare dipinta di rosso. A metà della salita, la carrozza incrocia l'altra che è partita contemporaneamente dallo Zugerberg ed entrambe si sfiorano e sussultano sulle giunture del binario, che si apre in due corsie parallele per deviare la loro traiettoria, per poi ritornare sul singolo binario e terminare il loro breve viaggio, una a valle e l'altra a monte.

La sera teniamo la luce accesa fino a tardi, dato che non ci sono ancora i professori, ad eccezione di quello di storia della sezione americana, che però vive a Zug. Nessuno viene a controllarci e, prima di addormentarci, apriamo la finestra e ci gustiamo l'ultima sigaretta della giornata, comodamente sdraiati a letto. È come vivere in un albergo, ma purtroppo dura poco. I dieci giorni volano via come il vento e, di colpo, quei luoghi così deserti e ormai così familiari, si animano di gente, di ragazzi che arrivano con la funicolare, carichi di valigie, o accompagnati dai genitori su macchine lussuose che non ho mai visto prima. Ci sono ragazzi della mia età, altri più giovani, altri già con il segno della barba sulle guance: italiani, tedeschi, svizzeri, olandesi, americani, francesi e io riesco a capire solo quelli che parlano la mia lingua e qualche parola di quelli che parlano inglese.

La sera il refettorio è animato da un gran vociare e i tavoli sono pieni di ragazzi e di professori che siedono a capotavola e che hanno il compito di mantenere l'ordine e la disciplina. Io sono al tavolo dei più piccoli, di quelli che alloggiano alla Juventus, la costruzione destinata agli allievi delle medie. C'è un gran chiasso ma, a un cenno di Osterseyer, il vociare si spegne piano piano, fino al silenzio più assoluto e una figura minuta, tutta vestita di nero, in piedi accanto al direttore, inizia la preghiera per ringraziare il Signore del cibo che di lì a poco ci verrà servito.

"Amen",conclude il prete e, in coro, tutti rispondono: "Amen".

È un prete di origine francese, con i capelli bianchi e gli occhi piccoli e intelligenti. Ha un nome difficile da pronunciare, che assomiglia al nome di una di quelle città dove i nazisti trucidarono centinaia di migliaia di ebrei: credo si chiamasse Ausmirt o Auschmirt.

Le cameriere spagnole cominciano a girare per i tavoli con le zuppiere fumanti di minestra e il vociare riprende, ancora più forte di prima. Intorno a me ci sono ragazzi di tutte le nazionalità e, per la prima volta da quando sono arrivato, mi sento a disagio e in qualche modo più solo di quando Angelino e io eravamo gli unici alunni del Montana e ci sentivamo i padroni di tutto il collegio.

Di quel primo anno in Svizzera ricordo con chiarezza due cose: la prima neve e le feste di Natale e di Pasqua trascorse in solitudine, mentre i miei compagni tornavano a casa dai genitori. Il viaggio aereo per Asmara costava molto e mio padre aveva deciso che sarei potuto tornare a casa solo per le vacanze estive. Nel refettorio era stato messo un grande albero addobbato con palle di vetro colorate e nastri d'argento luccicanti. Dopo la santa messa di Natale, avevo fatto colazione allo stesso tavolo dove c'erano il direttore, sua moglie e il prete. Sotto l'albero c'erano dei pacchi e su ognuno spiccava il mio nome. Erano regali per me ! Uno da Ostersayer, uno dal mio compagno di camera che me lo aveva mandato da Milano, un altro ancora, arrivato proprio mentre ci mettevamo a tavola, spedito dai genitori di Angelino con un biglietto scritto di suo pugno e poi tanti altri piccoli regali che mi avevano mandato i compagni di classe e anche alcuni compagni delle sezioni straniere. Nemmeno un regalo era arrivato da Asmara; solo un telegramma di auguri: buon Natale da mamma e papà.

Avevo l'obbligo di dedicare allo studio solo due ore prima di cena, mentre il resto della giornata ero libero di fare quello che mi pareva. Così mi divertivo ad andare in slitta, a passeggiare per i campi innevati, a provare a migliorare la mia stabilità sugli sci e, di nascosto, a scendere lungo i gradini, posti ai bordi della rotaia della funicolare, fino a Zug.

Quell'anno l'inverno fu particolarmente rigido, tanto che la temperatura era arrivata a punte di 25 gradi sotto lo zero. Giocavo a prendere la rincorsa e a scivolare sulle lastre di ghiaccio che si erano formate sulle strade e sul piazzale antistante la Grosses Haus. Speso incontravo delle famiglie di Zug che erano arrivate con la funicolare per fare una passeggiata in mezzo ai boschi o per andare a sciare; c'erano molte persone anziane, ma anche tanti bambini che, comodamente seduti sugli slittini, si facevano trainare dai genitori. All'imbrunire una lunga fila aspettava la funicolare per tornare a Zug e, poco prima di cena, il Montana ripiombava nel più assoluto silenzio. Quando tornavo in camera mia, potevo tenere la luce accesa e me ne stavo sdraiato sul letto a leggere e a fumare, spalancando ogni volta la finestra per far circolare l'aria, anche se la stanza rimaneva comunque impregnata dell'odore di nicotina.

Anche durante le vacanze di Pasqua ricevetti dei regali: perlopiù uova di pasqua e qualche dolce a forma di colomba. Come durante le vacanze natalizie, il giorno lo passavo a camminare sui campi ancora innevati, ma questa volta per cercare, tra la neve che cominciava a sciogliersi, le bottiglie vuote di birra lanciate dalle finestre dai ragazzi più grandi. Per ogni bottiglia che riportavo al chiosco del ristorantino, ricevevo l'importo per il deposito di zwanzig Rappen (venti centesimi di franco) e riuscivo a volte a racimolare uno o due franchi, che spendevo in dolci e sigarette.

Anche durante l'inverno avevo trovato un sistema per avere qualche soldo in tasca, dato che il Taschengeld, la paghetta settimanale di cinque franchi, concordata dal direttore e mio padre, non riuscivo quasi mai ad averla; per ogni disubbidienza o per marachelle più o meno importanti, il Taschengeld veniva ridotto o annullato completamente. Di solito il sabato mattina, giorno in cui Herr Wier, il vice direttore ed insegnante di storia dell'arte nella sezione italiana, con la sua pipa perennemente incollata alla bocca e le bianche e lunghe sopracciglia arruffate, distribuiva questa unica fonte di entrata per alcuni di noi. Chiamava all'appello i ragazzi delle varie sezioni per consegnare loro il denaro. Io me ne stavo in disparte e lui mi guardava con un sorriso sornione, aspettando che arrivasse il mio turno per potermi urlare addosso:

"Giovanni, monellaccio, anche questa settimana niente Taschengeld!"

In poche parole mi faceva fare la solita figura di merda davanti a tutti, ma il fatto di non mettermi in fila per evitare di essere umiliato, mi dava una certa soddisfazione e a lui faceva in qualche modo girare le palle. Però, in fondo come tutti i professori, mi voleva bene e trovava il mio carattere ribelle in qualche modo simpatico e divertente.

Il giovedì sera venivano serviti vari salumi e formaggi ed io mi riempivo il piatto di salame, prosciutto e mortadella, per poi nasconderli in un contenitore vuoto di biscotti di plastica che avevo comprato da Ursola al chiosco della funicolare. Senza farmi scoprire, mi riempivo il piatto anche tre volte e smettevo solo quando il contenitore era pieno e lo nascondevo dentro la tasca interna della giacca a vento. La mattina avevo già riempito lo stesso contenitore con i piccoli panetti di burro che venivano serviti assieme alla marmellata a colazione e che nascondevo sotto la neve accumulata all'esterno della finestra della mia stanza. Prima di lasciare il refettorio, al termine della cena, controllavo su quali tavoli se era rimasto un cesto di pane intero o quasi e infilavo tutte le fette che potevo nelle tasche laterali della giacca. I salumi, il formaggio li mettevo fuori dalla finestra assieme al burro e le fette di pane le nascondevo dietro alle camicie nell'armadio. La mattina successiva mettevo la sveglia alle cinque e cominciavo ad imburrare le fette di pane e a riempirle di formaggio, o salame, oppure con prosciutto o mortadella. Avvolgevo i panini in tovaglioli di carta e li nascondevo dentro la cartella. Alle dieci c'era la ricreazione lunga e si poteva andare al refettorio a bere cioccolata calda, molto annacquata, accompagnata dal pane del giorno prima. Dato che il Felsenegg, dove c'erano le aule della sezione italiana, distava dalla Grosses Haus almeno un centinaio di metri e la strada il più delle volte era ghiacciata, molti preferivano restare al caldo in classe. Io passavo con i sandwich e li vendevo a un franco l'uno. Ogni venerdì incassavo tra i quindici ai venti franchi e del Taschengeld potevo tranquillamente fregarmene.

La neve la vidi per la prima volta in vita mia in quel lontano inverno dei primi anni sessanta.

Il professore italiano di disegno, dal cognome straniero, usava uno strano metodo per darci la sveglia la mattina: metteva un disco di musica classica e alzava piano piano il volume, fino a fare entrare in tutte le stanze quel suono armonioso di violini e di pianoforti, di trombe e violoncelli, di oboe e flauti. Quella mattina la musica fu preceduta dalla sua voce, mentre, aprendo le porte delle camere, Herr Jansen ci avvertiva che stava nevicando. Corsi alla finestra e vidi quegli enormi fiocchi bianchi che scendevano delicatamente dal cielo, accompagnati da un silenzio ovattato, quasi irreale. Avevo sentito dire che la neve era fredda e che intorpidiva le mani solo a toccarla. Volevo vederla più da vicino, sentirla sotto i piedi, accarezzarla, così m'infilai un paio di pantaloni e sopra a quelli un altro paio più pesante; mi misi due paia di calze e il maglione con i cervi e, con le scarpe ancora slacciate, mi catapultai giù per le scale e in mezzo al cortile.

Alzai la testa al cielo e lasciai che i fiocchi mi entrassero direttamente in bocca, rincorrendoli uno ad uno, con l'imbarazzo di scegliere quale fosse il più grande. Calpestavo la neve appena caduta, provando un piacere nuovo nel sentire lo strano rumore che la mia scarpa produceva affondando in quel candido tappeto. Mi sentivo felice e non mi accorsi della presenza dei miei compagni e dei professori che, affacciati alle finestre, ridevano di me.

Mi resi subito conto che non riuscivo a legare con quei ragazzi così diversi dagli amici che avevo lasciato ad Asmara. Non sopportavo lo spirito poco cameratesco che li accomunava e reagivo ai loro scherzi e alle prese in giro con spintoni e minacce, pronto a venire alle mani per un nonnulla.

Dopo due settimane dall'inizio della scuola avevo già fatto a botte con un coetaneo più grosso di me, soprannominato Fischietti, solo perché mi aveva lanciato uno zuccherino nella tazza del caffellatte. Gli avevo fatto un occhio nero come la pece, dandogli un pugno in faccia davanti alla porta dell'infermeria, fregandomene della presenza, a pochi metri da noi, di Osterseyer, detto Peppo, che stava tranquillamente conversando con la moglie, soprannominata ovviamente "Peppa".

A nulla servì il richiamo da parte del direttore e la punizione di restare nella mia camera per tre giorni, durante l'intervallo tra la fine del pranzo e l'inizio dell'orario di studio pomeridiano.

La prima esperienza con gli sci fu a dir poco drammatica. Mi avevano dato degli sci di legno color rosso, con un'attaccatura di ferro adatta agli scarponi da montagna, che si infilavano dentro uno spazio fissato da una larga cintura di cuoio e bloccati da una grossa molla posta nella parte posteriore di una plantare di ferro fissato al centro degli sci. Non riuscivo a muovermi e, nonostante gli sforzi di spingermi in avanti, aiutato anche da gradi racchette da sci in bambu, rimanevo fermo davanti allo Skiraum, dove venivano riposti gli sci dopo le lezioni. Alcuni ragazzi della sezione tedesca, di un paio d'anni più vecchi di me, mi osservano e ridevano, parlando tra loro in quella lingua così strana. Ovviamente non capivo una sola parola di quello che mi stavano dicendo, ma era chiaro che mi stavano prendendo in giro, soprattutto uno dall'aria da signorotto bavarese: era alto, biondo e con le guance rosse come mele mature. Fu a lui che dedicai la punta della mia racchetta da sci, infilandogliela in un polpaccio per un paio di centimetri e costringendo gli altri due crucchi alla fuga, minacciandoli di colpire anche loro. Al nobile tedesco furono messi dei punti di sutura e da allora né lui né i suoi amici pensarono più di infastidirmi.

Per questi atti, considerati "violenti", ricevetti due ultimatum dal direttore, che scrisse anche una lunga lettera a mio padre, dove lo invitava a venire al più presto al Montana per discutere delle mie difficoltà a integrarmi con gli altri studenti. Era troppo impegnato ad Aden e rispose al direttore che avrebbe cercato di venire al Montana appena possibile; arrivò alla fine di novembre, poco prima del saggio di musica dei principianti.

Aveva voluto che prendessi lezioni di piano; anche io avrei dovuto esibirmi quel giorno, anche se non avevo assolutamente voglia di compiacergli, visto che il maestro di musica era molto soddisfatto dei risultati e aveva detto a mio padre che avrei potuto raggiungere degli ottimi livelli, se mi fossi impegnato e non avessi saltato le lezioni, come era successo diverse volte. Aveva anche ascoltato le lamentele del direttore sul mio comportamento ribelle, che Osterseyer aveva definito addirittura "un po' selvaggio" e sul mio difficile inserimento nell'ambiente scolastico.

Ascoltarono insieme il mio piccolo saggio, e in seguito continuarono a parlare nell'ufficio del direttore. Io ero rimasto davanti alla porta chiusa e aspettavo che mio padre uscisse per stare un po' con lui. Appena terminato il colloquio, scendemmo insieme verso il ristorantino della funicolare per bere qualcosa di caldo. Erano trascorse forse tre ore dal suo arrivo e, dopo essersi di nuovo raccomandato di comportarmi in modo più disciplinato, era rimontato sul taxi e non si era nemmeno voltato a salutarmi.

Ero tornato verso l'Aula Magna, dove si era tenuto il saggio, e mi ero seduto sui gradini dell'entrata, con lo sguardo perso nel nulla, immaginando la giornata come l'avevo sognata, appena avevo saputo del suo arrivo al collegio, e di come era effettivamente trascorsa. Avevo sperato in una passeggiata a Zurigo, di entrare con lui in qualche negozio per acquistare degli abiti nuovi, magari anche una cena insieme, per chiacchierare un po' di me, di lui, del futuro.

In poco più di sei mesi avevo già dimostrato dei sensibili miglioramenti, soprattutto per quello che riguardava i problemi comportamentali. Riuscivo finalmente a esprimermi in un italiano corretto e assistevo con interesse alle lezioni, riuscendo anche ad avere voti vicini alla sufficienza.

La primavera del 1963 stava per terminare e io ero preso con le lezioni private di tedesco. Non sarei mai riuscito a superare gli esami di terza media senza un aiuto esterno che mi facesse entrare in testa quella lingua così ostica e inizialmente così incomprensibile. Non che andassi meglio nelle altre materie! I professori avevano fatto di tutto per farmi raggiungere un livello almeno decente rispetto agli altri compagni della mia classe, ma gli studi approssimativi compiuti ad Asmara e, soprattutto, senza alcuna continuità negli ultimi tre anni, avevano lasciato una profonda lacuna e colmarla in un solo anno scolastico era un compito non facile. Di questo e della mia situazione familiare tennero ovviamente conto i professori al momento dell'esame, informando anche la commissione esterna che uno dei cinque esaminandi, oltretutto ripetente, aveva avuto delle difficoltà, anche di carattere familiare e sarebbe stato opportuno aiutarlo a credere in se stesso, evitando una nuova bocciatura. Avevano assicurato che l'alunno, aiutato anche dagli insegnanti, si stava impegnando seriamente e, quindi, per questa sua volontà andava in qualche modo premiato.

Gli esami vennero sostenuti in presenza della commissione esterna arrivata dall'Italia, che era stata invogliata, in qualche modo, a chiudere un occhio in presenza di alunni non proprio preparati. Fu così che superai gli esami di terza media, con solo due materie rimandate a ottobre: italiano e tedesco.

Breve vacanza ad Asmara

Mentre ero in attesa del volo Zurigo-Roma, cominciai a ripensare a Paolo, il mio migliore amico ad Asmara. Ci eravamo scritti qualche lettera all'inizio, ma poi avevamo perso ogni contatto. Ero emozionato al pensiero di rivederlo e di poter anche riabbracciare mia madre dopo tanti mesi; non vedevo l'ora di tornare a correre in bicicletta sulle strade polverose della mia città, di sedermi sulle panchine di granito della piazzetta con gli amici di un tempo e fumare qualche sigaretta Rothmans insieme a loro. Mi mancavano anche le sassaiole di un tempo: ci schieravamo su una collina vicino all'imbocco della strada per Massaua e, nascosti dietro le fitte piante di fichi d'india, ci fronteggiavamo con le bande dei ragazzi neri a colpi di sassi e fiondate. Avevo ancora i segni di quelle battaglie inutili e pericolose, che finivano sempre con una stretta di mano tra i due capi banda e con una scorpacciata di fichi d'india appena raccolti: mi era rimasta una cicatrice sotto l'occhio destro e i segni dei diversi punti di sutura che mi avevano messo in testa.

Era la prima volta che viaggiavo da solo e mi sentivo "grande". A Roma avrei dovuto cambiare aereo e prendere il volo Sudan Airways per Khartoum, con uno scalo tecnico al Cairo. La coincidenza per Asmara era il giorno seguente al mattino presto, così la compagnia aerea aveva provveduto a sistemarmi in un albergo non lontano dall'aeroporto.

Arrivato in Sudan, dopo aver cenato controvoglia in albergo, se così si poteva chiamare quella costruzione a due piani in mezzo al nulla, mi incamminai lungo la strada deserta verso le luci della città. Non ero mai stato a Khartoum e in qualche modo mi ricordava molto le città dell'Eritrea. Prima di raggiungere il centro attraversai un agglomerato di case, con vicino una piccola moschea, e mi sembrò di essere a Kheren; poi trovai un largo viale diviso da aiuole, che era la copia esatta di via Roma ad Asmara, con lo stesso tipo di costruzioni basse e le palme da dattero lungo entrambi i marciapiedi. Al termine del viale c'era la città vecchia, con alcune delle strade ancora da asfaltare, dove incontrai donne e uomini che vestivano in modo molto simile agli eritrei, ma rispetto a loro avevano una carnagione molto più scura e parlavano in arabo. Comprai un pacchetto di Rothmans in un chiosco di lamiere e mi sedetti su alto gradino vicino ad un bar, da dove usciva della musica ad alto volume. Non le avevo più fumate da quando ero partito l'anno prima per la Svizzera.

Dopo meno di un'ora da quando ero uscito, decisi di tornare nella mia camera. Mi sdraiai sul letto a luci spente, ma non riuscivo a prendere sonno; ero così emozionato di tornare ad Asmara e rimasi vestito sul letto fino alle luci dell'alba. Le persiane erano rimaste aperte e il ventilatore a soffitto girava al massimo della potenza per contrastare il caldo umido che mi appiccicava la camicia alla pelle ed anche per cercare di allontanare quelle maledette mosche che continuavano a ronzarmi intorno e a posarsi sul mio viso, sulle mani e sui muri, pieni dei puntini neri lasciati dai loro escrementi.

C'erano un po' tutti ad aspettarmi all'arrivo ad Asmara; mia madre era molto dimagrita e mi sembrava diventata più piccola di com'era quando ero partito, ma forse ero io che ero cresciuto e ora la superavo in altezza di qualche centimetro. In quell'anno avevo cominciato ad avere la prima peluria di barba sul viso.

"Sei diventato un uomo"continuava a ripetermi mentre, tenendomi stretto a lei, mi accarezzava e piangeva di felicità.

Mio padre si limitò a un buffetto sul viso e a una pacca sulla spalla.

"Adesso sembri proprio un Gazzano"mi disse, prendendo la valigia e facendoci strada verso il parcheggio dell'aeroporto.

Aveva cambiato macchina. Era sempre un'Opel, la sua marca preferita, ma questa volta era il top della gamma: una Kapitän gialla a tre marce, con dei grandi sedili dove potevano starci tranquillamente sei persone, tre davanti e tre dietro. Mi sedetti davanti tra lui e mia madre e rimanemmo in silenzio fino a casa. Non sapevo cosa dire e provai la sensazione di trovarmi con degli estranei. Li sentivo così diversi, così lontani, così indifferenti alla mia presenza; tutti i sogni che avevo fatto in quegli ultimi due giorni, tutte le fantasie che avevano attraversato la mia mente la notte prima, crollarono come un castello di sabbia. Improvvisamente desiderai solo cambiarmi d'abito e andare dagli amici, che erano stati avvisati del mio arrivo e che mi aspettavano davanti al cancello di casa.

Anche loro in qualche modo erano diversi, lontani. Ma forse ero cambiato io. Non sentivo più mio quell'ambiente, quei luoghi che avevo tanto desiderato rivedere, quelle persone che fino a poche ore prima avrei riabbracciato con trasporto e nostalgia. Non era passato nemmeno un anno da quel lontano settembre in cui ero partito per il collegio in Svizzera, ma era bastato per farmi distaccare da quelle abitudini, dalle amicizie di un tempo, dalle apprensioni e dalle angosce per i litigi dei miei genitori.

Tra loro non era cambiato nulla. Mio padre era sempre più impegnato con la concessione di banane e spesso non tornava a dormire; mia madre si impasticcava di tranquillanti e girava per casa senza meta, oppure rimaneva a letto per giorni interi, senza toccare quasi cibo. Ogni tanto le amiche la costringevano ad uscire per una partita a ramino o a canasta, ma era evidente che non stava bene e che si doveva fare qualcosa al più presto, per evitare che la crisi depressiva in cui era caduta degenerasse. Fu il nostro medico a trovare la soluzione, lo stesso medico che aveva visto nascere me e Francesca e che era legato alla nostra famiglia da un sentimento di grande amicizia, soprattutto nei confronti di mia madre, che aveva assistito anche quando, qualche anno prima, aveva tentato il suicidio cercando di lanciarsi dalla finestra del palazzo dove abitavamo.

Non essendo possibile trovare insegnanti di tedesco ad Asmara, suggerì a mio padre di contattare il collegio in Svizzera per sapere se era possibile che io prendessi lezioni private di italiano e tedesco direttamente lì, per prepararmi agli esami di riparazione. Mia madre avrebbe potuto stare con me, sistemandosi in un albergo non lontano dal collegio, e nel contempo curarsi. L'aria di montagna e le passeggiate le sarebbero state di giovamento e probabilmente avrebbe riacquistato anche l'appetito e la gioia di vivere.

La sezione estiva del Montana iniziava ad agosto e potevo iscrivermi al corso di tedesco per principianti, frequentato da alunni italiani che trascorrevano le vacanze in collegio; per le lezioni di italiano il direttore disse che non ci sarebbero stati problemi, dato che il mio insegnante delle medie viveva a Zug e avrebbe potuto venire allo Zugerberg quattro volte a settimana per aiutarmi a ripetere il programma e per prepararmi all'esame di fine settembre. Osterseyer s'interessò anche per la sistemazione di mia madre presso l'albergo vicino alla funicolare del Montana, annesso al ristorante di proprietà del padre di Ursula e ottenne da questi un prezzo non troppo elevato per un periodo di due mesi, comprensivo dei pasti e della lavanderia. Mio padre accettò tutto senza battere ciglio. Anche se cercava di non dimostrarlo, era felice di quella soluzione ai miei problemi e a quelli di mia madre, che gli consentivano di restare solo per i prossimi mesi. Durante le due settimane che restavano alla data della partenza si sforzò di essere gentile con mia madre e premuroso con me. Mi accompagnò ad acquistare dei nuovi vestiti e a lei regalò un bracciale e una collana di perle. La sera cenava con noi e spesso rimaneva nel suo studio a catalogare i francobolli fino a tarda notte, ma restava a dormire a casa.

Un giorno, mentre passavo davanti alla casa di Teresa, la vidi che parlava con delle amiche. Era cambiata, cresciuta anche lei, e le era spuntato il seno che spingeva contro la maglietta aderente. Mi salutò con la mano e mi venne incontro.

"Avevo sentito dire che eri tornato, ma pensavo che non t'interessasse più vedermi, visto che non sei neppure passato a salutarmi"mi disse, mentre cercava di misurarsi vicino alla mia spalla per vedere se era più alta di me.

"Sono tornato solo da una decina di giorni e sono uscito poco, perché mia madre non sta bene" risposi e le presi la mano, dicendole che era ancora più bella di quando ero partito.

Avevamo entrambi quattordici anni, ma lei sembrava molto più grande di me; ormai era una ragazza con le fattezze da donna e la cosa m'imbarazzava un po'.

"Ma ti fermi ad Asmara o devi ritornare in collegio?"

"Purtroppo riparto fra due settimane e mia madre viene con me in Svizzera per curarsi."

Mentre le parlavo e guardavo quegli occhi verdi di cui ero stato innamorato sin da bambino, percepii di nuovo la sensazione che non avrei più rivisto quella città e nemmeno lei. Era una sensazione che avevo provato già qualche giorno prima, quando mi ero trovato a raccogliere una pietra di quarzo bianco e luccicante, molto comune in Eritrea, e me l'ero messa in tasca per conservarla come ricordo. Anche la punta di un'agave, che avevo strappato dalle lunghe e grosse foglie di questa pianta tropicale, l'avevo conservata in un pezzo di carta. Guardavo le cose con gli occhi di chi vuole fortemente imprimere nella memoria un ricordo e sentivo che quel prossimo viaggio rappresentava la fine della mia vita in Africa.

"Ti andrebbe di andare al cinema questo pomeriggio?"incalzò lei; "danno un film comico, con quell'attore francese che sembra mezzo matto, come si chiama... Louis de Funès, mi sembra."

"Certo, mi farebbe piacere."

"Allora mi passi a prendere con la bicicletta alle quattro, va bene?"concluse, mentre mi dava un bacio sulle labbra e tornava dalle sue amiche che erano rimaste ad aspettarla.

Già alle tre di pomeriggio ero pronto ad uscire, vestito con i pantaloni blu a costine di velluto che mi aveva comprato mio padre e una camicia celeste con i bottoni sul colletto. Camminavo in giardino e poi tornavo in salotto a sentire della musica e poi riuscivo di nuovo e restavo seduto sul gradino davanti alla porta d'ingresso. Il tempo non passava mai ed ero emozionato come se dovessi incontrare Teresa per la prima volta; effettivamente era la prima volta che stavo con lei con l'aspetto di una giovane donna.

Seduta sulla canna della mia bicicletta, rideva e mi faceva volare i capelli contro il viso. Avevano il profumo caldo della terra africana, misto a lavanda, e avrei voluto tenerla stretta come quando ballavamo insieme prima che partissi per la Svizzera, accompagnati dalle note della nostra canzone: put your head on my shoulder.

Ci sedemmo nell'ultima fila del cinema e fu lei a prendere l'iniziativa; appena si spensero le luci e i titoli del film cominciarono a scorrere sullo schermo, si girò verso di me e mi accarezzò il mio viso, appoggiando le sue labbra sulle mie. Non fu un bacio come quelli che ci scambiavamo un tempo, a occhi chiusi, solo labbra su labbra, senza respirare. La sua lingua cercò la mia e il suo respiro si fece accelerato, mentre prendeva la mia mano e l'appoggiava al seno. Pensai che quello non fosse stato il suo primo vero bacio, mentre per me lo era e non sapevo cosa fare. Cominciai anche io a muovere la lingua sulla sua e a farla scivolare nella sua bocca profumata; intanto la mia mano stringeva quel piccolo fiore, provocando in me un'eccitazione diversa da quella che quasi tutte le notti, nel mio letto o chiuso nel bagno del collegio, reprimevo con carezze sempre più veloci e ritmate.

Anche in quella circostanza fu lei a prendere l'iniziativa. Mi accarezzava le gambe, senza mai staccarsi dalla mia bocca, e le sue carezze si spinsero fino alla chiusura dei miei pantaloni, dove ad un tratto cominciò ad armeggiare per far scivolare in basso la cerniera lampo ed infilare la mano. Durò pochi attimi e provai vergogna quando mi disse, ridendo, con la bocca ancora incollata alla mia, che aveva le dita tutte appiccicate.

Continuammo a vederci anche nei giorni successivi, sempre di pomeriggio, al cinema o nel garage di casa mia. Il solo pensiero che a giorni sarei dovuto ripartire mi faceva star male. Non potevo fare più nulla per rimandare la partenza; mio padre aveva già acquistato i biglietti e ogni mio tentativo di spostare il viaggio, almeno di qualche giorno, andò a vuoto. Ci vedemmo per l'ultima volta davanti al portone di casa sua. Ci baciammo a lungo e ci stringemmo uno contro l'altro con un desiderio sempre più crescente, con la promessa di rivederci l'estate successiva, anche se sapevo che non avrei più passato le mie vacanze ad Asmara.

Il Montana seconda parte

Il volo prevedeva una sosta a Roma e la coincidenza per Zurigo c'era solo la mattina seguente. Atterrammo in orario. Era una calda giornata estiva e mia madre decise di fare visita ad una sua amica, che si era trasferita in Italia qualche anno prima. Le telefonò appena usciti dal controllo passaporti e, dato che la sua amica abitava ad Ostia, a pochi chilometri dall'aeroporto, si offrì subito di venirci a prendere e insistette perché restassimo anche a dormire a casa sua. Era un bell'appartamento con un gran terrazzo che affacciava sul litorale gremito di bagnanti. Sulle pareti e in tutto l'appartamento c'erano solo mobili, quadri e oggetti dell'artigianato eritreo, con l'immancabile dipinto della storia della Regina di Saba e di Re Salomone, dai colori sgargianti e le scritte in amarico. Viveva sola, perché il marito lavorava per un'impresa petrolifera in Arabia Saudita e tornava a trovarla un paio di volte l'anno. Ci fece sistemare nella stanza degli ospiti e chiese a mia madre se desiderava fare un giro per i negozi, mentre lei preparava il pranzo. Ne approfittai per ricordare a mia madre che aveva promesso di comprarmi un giradischi portatile e, nonostante insistesse nel voler restare a dare un aiuto alla sua amica, la convinsi ad uscire. Mio padre, pur di levarsela di torno, le aveva lasciato parecchi soldi, in maggior parte dollari americani e sterline inglesi, essendo più facile ad Asmara reperire quelle valute che le lire italiane. Passammo, quindi, da una banca per cambiare i soldi e poi ci incamminammo lungo il viale principale di Ostia alla ricerca di un negozio di articoli musicali.

Sembrava che non esistessero negozi che vendevano radio e giradischi, così chiedemmo in un negozio di dischi vicino alla stazione centrale della metropolitana e ci indicò una via alle nostre spalle, dopo il primo cavalcavia. Finalmente lo trovammo ed ero così eccitato nel guardare esposti in vetrina dei giradischi e, tra questi, proprio quello che desideravo io: chiuso sembrava una valigetta ma, una volta aperta, all'interno c'era il piatto del giradischi da una parte e dall'altra, incassati nel coperchio, due altoparlanti. Mi comprò anche dei dischi a 45 giri con le canzoni di quell'estate e tra questi uno di Rita Pavone, con una canzone che mi ricordava i pochi giorni passati con Teresa ad Asmara: Cuore.

Anche il mio cuore stava soffrendo e le parole di quella canzone, risentite più volte a tutto volume nella stanza che ci aveva offerto l'amica di mi madre, mi fecero venire un nodo alla gola e il desiderio di risalire sul primo aereo per Asmara.

A Zurigo trovammo l'autobus che collegava l'aeroporto con la Hauptbahnhof, la stazione centrale, e da lì prendemmo il treno per Zug. Ci vollero quasi due ore per arrivare al Montana e mia madre preferì prendere possesso della sua stanza nel piccolo albergo adiacente il collegio, prima di presentarsi al direttore, che era stato avvertito del nostro arrivo e ci stava aspettando.

Ci accolse con un gran sorriso, seduto dietro la pesante scrivania del suo ufficio, e si congratulò con mia madre per la decisione che aveva preso di seguirmi nello studio delle materie che non avevo superato agli esami di terza media. Le chiese se l'albergo era di suo gradimento e ci fece accompagnare al secondo piano della Grosses Haus, dove mi avevano assegnato una stanza singola, per permettermi di studiare senza essere infastidito dagli altri allievi iscritti ai corsi estivi. A parte l'ora giornaliera di lezione di tedesco prevista dal programma e quella di italiano tre volte a settimana, passavo il resto della giornata organizzando, con un professore svizzero che era rimasto al Montana anche per i corsi estivi, escursioni nelle vallate dello Zugerberg o tornei di calcio e di tennis.

Ben presto mia madre fece amicizia con i pochi professori presenti durante il periodo estivo e in poche settimane aveva riacquistato un po' di peso, ma soprattutto la serenità che non provava da tempo. Passava ore a leggere, seduta sulla terrazza del ristorantino con la vista sul lago di Zug e in lontananza, nelle giornate limpide, si riusciva a vedere anche il monte Rigi. Era uno spettacolo rilassante e, giorno dopo giorno, la vedevo rifiorire, felice di avermi vicino. Studiavo con impegno e mi sforzavo di far pratica di tedesco con Ursula, la figlia del proprietario del ristorantino e del piccolo albergo con tre stanze. Spesso, invece di pranzare in refettorio, preferivo fare compagnia a mia madre, mentre Ursula serviva ai tavoli e ne approfittavo per scambiare con lei qualche parola in tedesco. Già dall'inverno era nata tra noi una simpatica amicizia e forse qualcosa di più.

Quando mi rivolgevo a lei in tedesco, se sbagliavo lei mi correggeva e, se non mi ricordavo qualche parola, la cercavo nel piccolo dizionario che avevo acquistato alla stazione di Zurigo.

La sezione estiva al Montana era intesa come una vacanza e gli allievi non erano obbligati a seguire l'unico corso facoltativo di tedesco per stranieri che si teneva due volte a settimana, dalle nove alle dieci del mattino, nell'aula magna del Felesenegg: Deutschkurs für Ausländer.

Si praticavamo vari sport e spesso venivano organizzate delle escursioni guidate nei paesi vicini; tra questi Unterägeri, dove c'era l'omonimo lago, molto più piccolo di quello di Zug, oppure ci si spingeva a piedi fino a Wildenburg-Höllgrotten per visitare le rovine del vecchio castello. Se c'era bel tempo si poteva andare a Zug a fare il bagno nel lago e, dopo la colazione al sacco, Herr Wier, il nostro insegnante di storia dell'arte durante l'inverno, portava i ragazzi a conoscere la parte vecchia di Zug, con il suo pittoresco centro storico, caratterizzato da due luoghi simbolo: la Zytturm (torre del tempo) e il Castello, con all'interno il museo con la storia degli abitanti della città.

Ovviamente a me non era consentito assentarmi per le giornate dedicate alle escursioni, ma riuscii a partecipare alla Orientierungslauf (gara di orientamento) organizzata dai professori svizzeri che vivevano a Zug. La gara si svolgeva tutti gli anni nei due giorni prima di ferragosto e, dato che i miei compagni sapevano che avevo trascorso tutto l'anno in collegio e che conoscevo molto bene quei luoghi, cercavano di convincermi ad entrare nella loro squadra. Quell'anno scelsi quella di un ragazzo di Pisa che mi stava particolarmente simpatico per il suo carattere ribelle, molto simile al mio e, ovviamente, avendo battuto ogni sentiero di quei boschi durante il passato inverno, arrivammo primi in classifica, vincendo il premio di venti franchi, che dividemmo tra noi.

Fu in quell'occasione che conobbi Marta. Ricordo ancora il cognome e da dove veniva: si chiamava Marta Egloff ed era la figlia di un ristoratore di Ägeri.

Al termine della gara era stato allestito un falò sulla collina che divideva Zugerberg da Unterägeri e tutti erano stati inviati alla grigliata di servelat, anche i camerieri del collegio. Il padre di Marta si era occupato della fornitura e della cottura delle servelat, e lei lo aiutava a preparare i piatti di carta con le salsicce, che distribuiva ai partecipanti e agli ospiti assieme ad un bicchiere di succo di mela. Avrà avuto una quindicina d'anni, ma aveva il corpo di una ragazza adulta. Era molto carina nel suo abito regionale verde e rosso, ornato di merletti bianchi e, ogni volta che passava davanti alla nostra squadra, mi faceva un sorriso e mi chiedeva se desideravo dell'altro Apfelsaft. Quando tutti furono serviti, si avvinò e mi chiese se poteva sedersi vicino a noi e, mentre anche lei assaporava finalmente il suo panino con la servelat, cominciammo a chiacchierare. Mi stupii per come il mio tedesco fosse migliorato; riuscivo a capire quasi tutto quello che mi diceva, anche se a volte alcune parole tedesche le sostituiva con l'incomprensibile Schwyzerdütsch, lo svizzero tedesco. Restammo d'accordo che ci saremmo incontrati il pomeriggio seguente davanti al campo di calcio del collegio.

Ero sdraiato sull'erba della collinetta davanti al bosco di abeti e la vidi arrivare sulla strada battuta che portava dalla Withschaft ai campi da sci, che ora erano di un verde vivo e pieni di margheritine. Si sdraiò subito vicino a me e ci mise un po' a riprendere fiato; probabilmente aveva corso per non fare tardi, visto che da casa sua al Montana, passando per il bosco, ci voleva quasi un'ora di cammino. Per un po' non dicemmo una parola. Rimanemmo mano nella mano sotto al sole caldo, fino a quando lei mi chiese di spostarci all'interno del bosco, dove sicuramente faceva più fresco. Raccolsi delle felci e le sistemai sotto ad un abete dove spuntavano poche radici, in modo da stare comodi. Cominciammo a darci dei baci leggeri, senza sfiorarci con le mani; poi lei si sdraiò sopra di me e non potei fare a meno di abbracciarla e di accarezzarla. Aveva una gonna leggera e sentivo attraverso il tessuto il segno delle mutandine. I nostri baci diventavano sempre più intensi fino a quando lei mi prese la mano e se la portò tra le gambe, facendo la stessa cosa con la sua. Quella fu la prima in vita mia volta che feci l'amore.

Da allora ci incontrammo ogni giorno e per tutto il resto dell'estate. Se lei non poteva venire a Zugerberg, la raggiungevo io a Ägeri e, ogni volta, era sempre più eccitante sentirmi mezzo nudo vicino a lei nel bosco, con la paura che potesse all'improvviso arrivare qualcuno.

L'esame di tedesco andò molto bene, tanto che il professore mi chiese come avessi fatto in soli due mesi a perfezionare la conoscenza di quella lingua che, durante l'esame a giugno, conoscevo appena. Ottenni dei buoni risultati anche nell'altro esame di riparazione e fui ammesso al primo anno di liceo scientifico, che sarebbe iniziato ai primi di ottobre.

Il programma di mia madre era di andare dalla sorella per un po', così, il mattino seguente, prendemmo il treno diretto a Milano e da lì la coincidenza per Torino.

Aveva recuperato peso dalla sua partenza da Asmara, ma non aveva ancora superato completamente la crisi depressiva, nella quale era caduta durante il periodo in cui era rimasta sola con mio padre.

Ero così contento di rivedere mio cugino Pietro e cercai di convincere mia madre ad accettare la proposta che le avevano fatto i miei zii: si era liberato l'appartamento vicino al loro e avrebbero avuto piacere che lei si stabilisse per un po' a Torino, visto che le cose con mio padre non miglioravano ed erano preoccupati di lasciarla di nuovo sola con lui. Mia zia ne aveva parlato telefonicamente anche con lui - all'insaputa di mia madre - e lui ovviamente aveva condiviso quella soluzione e si era offerto di mandarle dei soldi ogni mese per l'affitto e per le altre necessità, pur di non vederla ritornare ad Asmara.

Probabilmente anche mia madre era stanca di quella situazione, infatti accettò, senza molta reticenza, di firmare il contratto di locazione e chiese a mio padre di farle avere al più presto il denaro necessario per arredare l'appartamento. Io avrei potuto così passare con lei le feste ed il periodo estivo.

Prima di ripartire per il collegio, l'appartamento era stato completamente arredato e nel salotto avevano sistemato un mobile-libreria che, all'occorrenza, si trasformava in un un letto, dove io avrei dormito nei periodi delle vacanze.

Non ricevetti nemmeno una lettera da mio padre per complimentarsi dell'esito degli esami e mi convinsi che, in fondo, quella soluzione era stata l'unica alternativa possibile per condurre finalmente una vita più serena a fianco di mia madre.

Dividevo la mia stanza al Felsenegg con Patrizio, un ragazzo che aveva girato da poco un film, credo si intitolasse Agostino, e con un altro di origini olandesi, appassionato di motociclette. Patrizio era molto intelligente e parlava perfettamente l'inglese, anche se con un marcato accento americano. Amava tutto ciò che fosse made in USA, soprattutto i pantaloni di velluto Levi's e le camice a righe o a scacchi con i bottoncini sul colletto. Il suo idolo era Bob Dylan e trasmise anche a me questa passione per le canzoni di protesta, anche se avevo grosse difficoltà a capire le parole pronunciate a metà dai quei cantanti alternativi, che inneggiavano alla pace e alla protesta contro la guerra del Vietnam. Comprai molti dei dischi di Dylan, ma anche di Donovan e di Joan Baez e restavo ad ascoltarli assieme lui, chiedendogli spesso il significato di alcune frasi troppo difficili per il mio inglese, ancora modesto. Così imparai non solo delle parole nuove in inglese, ma anche dei vocaboli italiani che non avevo mai usato prima, dato che Pietro parlava un italiano molto forbito, usando appunto delle parole per me ancora totalmente nuove. Quando aveva girato il film, gli avevano fatto seguire delle lezioni di dizione ed aveva imparato ad esprimersi in modo raffinato ed elegante, cosa che mi piaceva molto.

Nella stanza davanti alla nostra c'erano due fratelli di Torino, Beniamino e Airoldo. Erano conti e il cognome completo era davvero lungo: Beniamino Bardo Bersano di Samburey, ma preferivano farsi chiamare semplicemente con il nome della contea di appartenenza e cioè Samburey. Non erano i soli nobili in quel collegio; altri due fratelli, di cui uno nella mia stessa classe, erano conti e vivevano in Toscana, in un paese della Maremma, a pochi chilometri da Livorno: Ugolino e Adelmo de' Possi Bucci Poi c'erano anche dei nobili di origine francese, tedesca e austriaca: tra questi due discendenti degli Asburgo Schwarzenberg. Era sicuramente un collegio per persone facoltose e a volte mi trovavo a disagio, avendo vissuto solo superficialmente la ricchezza di mio padre, dato che soldi in tasca non ne avevo mai avuti e mia madre non poteva certo permettersi di comprarmi dei vestiti alla moda con quel poco che lui le passava. Una sua amica le aveva scritto che, da quando eravamo partiti per l'Europa, lui aveva rinnovato tutto l'arredamento della villa in cui vivevamo e conduceva una vita da nababbo, organizzando feste con fiumi di champagne e orchestre locali. Faceva regali costosi alle amanti di turno e, si diceva, che ad una di queste, forse la stessa alla quale avevo sputato addosso, avesse regalato una macchina e provveduto anche ad iscrivere i suoi due figli in un collegio inglese. Ad un'altra aveva regalato una vacanza di due mesi al Quisisana di Capri. E poi perle, gioielli e altri regali di valore, anche per una sola notte di sesso.

Per un anno aveva mantenuto l'impegno di mandare a mia madre i soldi che le aveva promesso e che le bastavano giusto per pagare l'affitto e vivere dignitosamente, ma dopo cominciarono i ritardi nell'invio dell'assegno, sempre più frequenti, fino a quando, prima della fine del secondo anno da quando si era trasferita a Torino, il denaro non arrivò più e mia madre fu costretta a chiedere aiuto ai suoi fratelli a Palmanova; spesso anche la madre di Pietro, di nascosto dal marito, quando faceva la spesa la faceva anche per lei. Di questo fatto venni però a conoscenza dopo qualche anno e mi sentii un verme per aver continuato a chiedere a mia madre di mandarmi qualche franco mentre ero in collegio, dato che, oltre ai cinque franchi del Taschengeld, che non riuscivo quasi mai a prendere, spesso non avevo altro modo per comprarmi le sigarette, se non quello di continuare a confezionare i sandwich per venderli durante l'intervallo delle lezioni del veerdì, Quei franchi li mettevo da parte per aggregarmi ai miei compagni di scuola quando, di solito il sabato sera, andavano a mangiare la fondue svizzera con formaggio e Kirsch o un piatto di gebratene Zwiebeln (cipolle trifolate) nella vicina Wirtschaft.

Mi chiedevo spesso perché mio padre avesse voluto farmi studiare in quel collegio, con persone tanto diverse da me. Dovevo fare in modo di non essere isolato dagli altri che ricevevano da casa ogni settimana delle buste con dei soldi e che potevano permettersi di andare a Zug il sabato o a Zurigo la domenica, dove mi era stato detto che si poteva gustare la miglior tartare di manzo di tutta la Svizzera. Un'altra cosa che non avevo mai assaggiato e che, a detta dei miei compagni, era una prelibatezza, la vendevano a fette nella pasticceria Gurten di Zug: la Kirschtorte. Decisi così che avrei dovuto trovare un altro modo per guadagnare qualche soldo. La vendita dei sandwich non rendeva più; i miei compagni si erano fatti furbi e alcuni di loro i panini se li preparavano da soli.

Quando iniziava l'anno scolastico di soldi ne avevo abbastanza, visto che riuscivo a mettere da parte un bel gruzzolo durante le vacanze estive. Tutti gli anni andavamo con mia madre a Palmanova e aspettavamo che il padre di Pietro prendesse le ferie ad agosto, per trasferirci al mare a Grado. Dalla fine di giugno e per tutto il mese di luglio, dalla mattina presto sino a sera, raccoglievo la frutta nei campi dei contadini vicino ad Aquileia, che sistemavo in ordine nelle cassette di legno. Per ogni cassetta mi davano duecento lire e in una giornata riuscivo anche a confezionarne una cinquantina. Alla fine del mese avevo guadagnato più di centomila lire, quasi il doppio dello stipendio mensile di un impiegato di quegli anni. Una parte la tenevo per le vacanze a Grado e il resto lo conservavo per il mio rientro in collegio.

Quell'anno, per il mio diciassettesimo compleanno, ricevetti una lettera da mio padre; poche righe per dirmi che stava per destinare una parte della concessione di banane alla coltivazione di frutta fuori stagione che avrebbe destinato al mercato europeo. Il governo egiziano aveva chiuso il canale di Suez e la concorrenza degli altri esportatori di banane verso l'Arabia Saudita aveva fatto crollare i prezzi, per cui doveva trovare al più presto un'alternativa a quella crisi e l'idea della frutta fuori stagione, come fragole, albicocche, pesche, ecc.. gli era sembrata una valida alternativa alla perdita dei contratti per la fornitura di banane. Era impensabile ed estremamente costoso trasportare le banane circumnavigando l'Africa o spedirle via aerea. La lettera terminava con gli auguri di buon compleanno e conteneva due banconote da venti franchi. Negli ultimi anni quella era la prima volta che mi mandava del denaro e pensai che si era davvero sprecato: con venti franchi avrei potuto al massimo comprarmi un paio di jeans. Sentii la rabbia crescere dentro di me e avrei voluto rispedirgli indietro quei soldi, con tanti ringraziamenti per essersi ricordato del mio compleanno.

Anche mia madre mi aveva spedito un regalo e una lettera dove mi scriveva che sarebbe partita alla fine del mese per Palmanova. Non si sentiva bene e preferiva farsi curare dal medico di famiglia, che la conosceva sin da ragazza. Concludeva suggerendomi di fare il biglietto del treno, al termine dell'anno scolastico, direttamente per Cervignano, dato che anche sua sorella sarebbe partita assieme a Pietro alla metà di giugno e aveva già prenotato le due stanze, per noi e per loro, nella solita pensione a Grado dove avremmo trascorso tutto il mese di agosto, come ogni anno.

Grado

Avevo finito i soldi e, appena arrivato a Palmanova, contattai subito Berto per farmi mettere nel suo gruppo per la raccolta della frutta. Era stata un'annata eccezionale e le piante erano ricolme di pesche ed albicocche. Partivamo all'alba per Aquileia e, in dieci ore di lavoro, riuscivamo a confezionare anche settanta cassette per uno. Non ci fermavamo nemmeno il sabato e la domenica, perché la frutta cominciava a cadere dai rami e bisognava fare in fretta.

Come in passato, raccontavo a mia madre che andavo al mare con Berto. Tornavo comunque ogni sera più abbronzato, dato che, per il caldo, rimanevo solo in calzoncini a raccogliere la frutta dagli alberi sotto il sole estivo. Alla fine di quel mese di luglio ero riuscito a guadagnare quasi trecentomila lire.

I primi due giorni a Grado non facevo che dormire sotto l'ombrellone; ero distrutto e mi faceva male la schiena. La sera non avevo nemmeno voglia di andare a fare la solita passeggiata nel centro, dove si accalcavano i turisti, perlopiù austriaci e tedeschi, luogo ideale per rimorchiare una ragazza con la quale passare la serata al night o sulla spiaggia. Di solito mi sedevo a un tavolo della birreria Sans Souci a sorseggiare un boccale di birra, aspettando di vedere passare qualche ragazza che, secondo me, avrebbe potuto accettare un mio corteggiamento. Il problema era che, soprattutto le turiste, passeggiavano in coppia con un'amica e spesso ero costretto a portarmi appresso anche l'altra, senza riuscire a concludere nulla, almeno la prima sera.

Ero già molto abbronzato e non mi andava di rimanere sdraiato a pigliare il sole vicino a mia madre e a tutti i parenti; preferivo starmene in pace, per i fatti miei, al bar Jolly della spiaggia libera, stravaccato su una sedia di plastica con i piedi appoggiati su quella davanti. Attraverso gli occhiali scuri scrutavo le ragazze sedute vicino a me senza essere visto e quel giorno rimasi senza parole nel vedere entrare quell'angelo biondo: era accompagnata dalla madre e aveva i capelli biondi a caschetto, gli occhi azzurri come il cielo e portava un piccolo bikini turchese che metteva in risalto l'abbronzatura. Si sedettero sulla fila di sedie davanti a me e rimasi a lungo a guardarla, aspettando che mi notasse.

All'improvviso sentii una pacca sulla spalla e mi voltai. Era Renzo, un amico che avevo conosciuto l'anno prima e con il quale avevo fatto coppia fissa l'estate passata, collezionando conquiste tra le bagnanti, soprattutto straniere. Ricordo che l'estate passata arrivavamo in spiaggia verso mezzogiorno, dato che la notte facevamo sempre tardi e la mattina non riuscivamo mai ad alzarci ad un'ora decente. Puntavamo dritto al Jolly, il bar della spiaggia, occhiali da sole perennemente calati sugli occhi, sigaretta all'angolo della bocca e sorriso sornione stampato sulla faccia. Prima del tramonto avevamo già abbordato due ragazze con le quali trascorrere la serata. Le portavamo al night e poi, se ci stavano, in spiaggia a scambiarci baci e carezze fino a notte inoltrata.

"Sono arrivato adesso da Gorizia"mi disse, mentre scansava i miei piedi dalla sedia e si sedeva di fronte a me.

"Ero passato a cercarti, ma tua madre mi ha detto che eri venuto al bar".

Lo salutai con una pacca sulla spalla e gli risposi: "ehi, hai visto quella bionda dietro di te? È appena arrivata con la madre. Credo sia tedesca."

Si girò e abbassò gli occhiali scuri sul naso. Anche lui rimase senza parole: era davvero bellissima.

Stavano bevendo in fretta le bibite che avevano ordinato e così dissi a Renzo che bisognava attaccare bottone, prima che se ne andassero. Ma come? Lei non era sola e il solito sistema della scusa di farsi accendere la sigaretta non avrebbe funzionato; sul tavolo c'erano solo i bicchieri e la borsetta della madre. Dovevo escogitare un approccio diverso. Nel frattempo lei si era accorta che la guardavamo e che confabulavamo; stavamo decidendo chi tra noi due avrebbe fatto la prima mossa. Lei disse qualcosa alla madre che si voltò verso di noi e ci sorrise. Era il momento...

Mi alzai e andai verso di loro.

"Wie geht es dir? Ich wusste nicht, dass du nach Grado zurückgekehrt warst", le dissi in tedesco.

Era una bugia; non l'avevo mai vista prima, ma chiederle come stava e che non sapevo che fosse tornata a Grado, fece il suo effetto. Lei e la madre cominciarono a ridere e anche tutta la gente seduta agli altri tavoli e che aveva assistito alla scena fin dall'inizio, si mise a ridere e a battere le mani. Lei non smetteva di ridere e, sebbene fossi diventato paonazzo dalla vergogna, presi coraggio e mi sedetti sulla sedia libera vicino a lei, salutando con un leggero inchino la madre che continuava anche lei a ridere.

Feci un cenno a Renzo e anche lui venne a sedersi con noi. Era fatta!

Si chiamava Doris ed era austriaca, di S. Johann in Pongau. Aveva diciotto anni, uno più di noi e così da vicino era ancora più bella. I capelli erano di un biondo quasi candido e aveva la frangetta che le copriva in parte gli occhi azzurri. La madre dopo un po' ci lasciò soli e restammo a parlare a lungo, senza accorgerci del tempo che passava, fino a che non vennero a chiamarla i suoi genitori. Rimanemmo d'accordo di vederci la sera in centro e, non appena se ne fu andata, Renzo e io ci guardammo e scoppiammo in una risata nervosa. Era la prima volta che ci capitava di agganciare una ragazza così bella e cominciammo, inevitabilmente, a discutere su chi di noi sarebbe andata la sua scelta. Non volevamo ammetterlo, ma credo che ci stessimo entrambi innamorando, come succedeva a quell'età.

I genitori non avevano voluto che uscisse da sola e così li vedemmo venire tutti e tre verso di noi sul corso principale di Grado. Lei indossava un abito nero molto corto e delle scarpe con il tacco che la facevano sembrare ancora più alta. Camminava lentamente e la leggera brezza le spettinava i capelli, che lei ricomponeva con le sottili dita dalle unghie smaltate di rosso. Si voltavano tutti a guardarla e a noi non sembrava vero che quella sera, e anche le altre che seguirono, lei avrebbe continuato a passeggiare al nostro fianco.

Purtroppo la settimana di vacanze finì in un lampo e ci ritrovammo a salutarla mentre saliva sulla macchina dei genitori, pronti a ripartire per l'Austria. Le promisi che sarei andato a trovarla ed ero certo che l'avrei fatto.

Le ultime due settimane di agosto le passammo seduti al bar Jolly ripensando a lei e al fatto che non avesse voluto scambiare un solo bacio con nessuno di noi due. Ci considerava degli amici e, anche se avevamo trascorso ogni minuto con lei negli ultimi sette giorni, credo non volesse dare un dispiacere a Renzo mettendosi con me o viceversa.

Qualche giorno più tardi conobbi Carola, una ragazza di Amburgo che stava sempre a crogiolarsi al sole vicino al nostro ombrellone, senza rivolgere la parola a nessuno. Mia madre e mia zia avevano fatto amicizia con i suoi genitori e una sera li avevano invitati a bere qualcosa al bar dopo cena. La madre era ancora molto giovane e la differenza di età con il marito si notava soprattutto quando, come quella sera, era vestita e truccata come una ragazzina. Il padre di Carola era molto riservato e sorseggiava la sua birra, intervenendo di rado nei discorsi della moglie, che si sforzava di farsi capire con qualche parola di italiano e qualcuna in inglese. Quando si trovava in difficoltà, chiedeva a Renzo di fare da interprete. Anche lui parlava molto bene il tedesco, ma preferiva chiedere il suo aiuto piuttosto che il mio. Notai subito quelle occhiate tra loro e penso che non sfuggirono nemmeno a Ulli, il marito e a Carola che, infastidita, mi chiese di accompagnarla a comprare le sigarette. Era nervosa per come sua madre si stava comportando e mi raccontò che qualche anno prima si era presa una sbandata per il suo insegnante di ginnastica e che aveva deciso di separarsi dal marito. Lui non aveva acconsentito, dicendo che voleva mantenere unita la famiglia, ma era semplicemente molto innamorato di sua moglie e avrebbe accettato qualsiasi compromesso, pur di non perderla.

Facemmo l'amore in spiaggia, appoggiati contro una cabina che ci nascondeva agli occhi della gente che passeggiava sul lungomare. Non era bella di viso, ma aveva un corpo ben fatto e sapeva fare l'amore come una donna. Lo facevamo più volte al giorno, in camera sua mentre i genitori erano in spiaggia oppure la notte, sdraiati sugli scogli vicino al faro. Una volta lo facemmo anche nel bagno del ristorante dove eravamo andati a cena.

Renzo si mise con la madre e, ogni notte, aspettava sotto la finestra dell'albergo che lei si affacciasse per avvisarlo che il marito si era addormentato e poi, insieme, scappavano in una zona buia della spiaggia libera per fare sesso. Non credo che lui si addormentasse veramente; era solo un uomo che non voleva perdere la donna che amava follemente e si rendeva conto che i quasi venti anni di differenza fra loro cominciavano a pesarle. Sapeva che lei, comunque, sarebbe tornata da lui e questo gli bastava.

Quando tornai in collegio Carola mi scrisse una lunga lettera, piena di passione, descrivendo i momenti passati insieme e che non riusciva a cancellare. Cominciammo così a scriverci ogni giorno. Dapprima mi aiutavo con il vocabolario, poi, sempre più spesso, le parole in tedesco mi uscivano come per incanto e le mie frasi diventarono tanto lunghe da riempire diversi fogli, ma soprattutto quasi prive di errori. Almeno due volte alla settimana le telefonavo e parlavamo per diversi minuti, ripetendo sempre le stesse cose: dovevamo rivederci, stare di nuovo insieme, fare l'amore...

Il mio tedesco migliorava giorno dopo giorno e, prima delle vacanze di Pasqua, ero diventato il migliore della classe, correggendo a volte la nostra professoressa di origini napoletane quando faceva degli errori di pronuncia.

Avevo scritto a mia madre che desideravo passare le vacanze pasquali ad Amburgo da Carola e chiesi al direttore di convincere mio padre a darmi il permesso per l'acquisto del biglietto aereo. Non solo Osterseyer mi fece preparare il biglietto, ma mi disse che mio padre lo autorizzava a consegnarmi cento franchi, non facendo in tempo a spedirmeli lui direttamente per posta da Asmara. Cosa era successo? Una crisi di coscienza o un'entrata straordinaria? Apprezzai il suo gesto e gli scrissi una lettera per ringraziarlo e gli raccontai che andavo ad Amburgo a trovare la mia ragazza. Poche righe, anche perché non sapevo cosa altro dirgli. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che lo avevo visto e, sinceramente, facevo difficoltà anche a ricordarmi il suo viso. Il nostro rapporto ormai era rappresentato solo da qualche breve lettera o da un telegramma di auguri in occasione del suo o del mio compleanno. Penso che non gli interessasse nemmeno instaurarne uno nuovo, anche perché non sarebbe stato facile rivivere i momenti importanti ormai perduti, quelli che uniscono un genitore a un figlio. Cosa poteva saperne in fondo dei miei bisogni, delle mie paure, del desiderio di averlo accanto quando ero a letto con la febbre alta o quando mi avevano messo i punti per una caduta sulla neve ed ero andato da solo al pronto soccorso di Zug. Come poteva riallacciare un qualcosa che non era mai esistito: un gioco fatto insieme, un suo aiuto nel fare i compiti quando ero bambino, una carezza al momento opportuno, un regalo, senza darmi i soldi per comprarmelo da solo, una spalla sulla quale piangere, un appiglio sicuro per affrontare le incertezze dell'adolescenza. Ormai mi sentivo un uomo e avevo imparato ad arrangiarmi da solo, senza rimpiangere quello che non mi era stato dato.

Le giornate erano diventate più lunghe e il primo sole del disgelo aveva in parte sciolto la neve sui campi. Il treno che avevo preso a Zurigo, al mio ritorno da Amburgo, stava per arrivare alla stazione di Zug e io rimanevo incollato al finestrino con lo sguardo perso nel vuoto, mentre la mia mente ripercorreva ogni attimo di quella breve vacanza con Carola. Sarei dovuto rientrare in collegio il giorno prima, di domenica, ma avevo fatto telefonare da Ulli al direttore per dirgli che ero stato a letto con l'influenza e avevo ancora qualche linea di febbre; sarai ripartito con il volo del giorno seguente. Avevamo infatti programmato di passare il fine settimana a Kiel assieme a degli amici di Carola e lei aveva insistito tanto perché io restassi almeno un altro giorno. Il tempo era volato via e quelle due settimane, tutte per noi, erano ormai solo un piacevole ricordo.

Suo zio era proprietario di un piccolo albergo nella zona periferica di Langenhorn Nord, il Thomfort Hotel, a pochi chilometri dall'aeroporto di Fuehlsbüttel e mi aveva dato una delle stanze che abitualmente riservava al personale: molto spartana, con il bagno in comune con gli altri camerieri dell'hotel, ma era gratis e per giunta accessibile dall'entrata di servizio, da dove Carola poteva venirmi a trovare, senza essere vista da nessuno, soprattutto dallo zio. Se non potevamo incontrarci nella mia stanza, facevamo l'amore dietro a delle basse costruzioni di legno lungo la strada che portava dalla stazione della U-Bahn a casa sua, dove durante l'inverno venivano conservate le pannocchie di mais. Erano sistemate una accanto all'altra e, nel mezzo, era rimasta sparpagliata a terra un po' di paglia dell'estate passata, ancora umida nonostante il sole primaverile. Stendevo sul foglie secche delle pannocchie la mia giacca a vento e lei, dopo essersi denudata, ci si sdraiava sopra allungando le braccia per accogliermi e riscaldarsi al contatto con il mio corpo.

Spesso non tornavamo a cena dai suoi genitori. Preferivamo restare a camminare lungo le vie del centro, in prossimità dell'Alster Pavillion, dove abbondavano le birrerie e i locali con musica dal vivo. Ci piaceva il pesce affumicato tipico di Amburgo, che accompagnavamo con qualche boccale di birra seduti in un pub. Oppure compravamo due frankfurter alla senape e restavamo in piedi a parlare e a fumare, fino a poco prima di mezzanotte, giusto in tempo per l'ultima corsa della metropolitana per Langenhorn.

Prima di salutarci all'aeroporto, ci eravamo promessi di scriverci tutti i giorni e di incontrarci a Grado in estate. Aveva chiesto ai suoi di poter partire in treno ai primi di agosto e loro l'avrebbero raggiunta a metà mese, per trascorrere le solite due settimane di ferie che il padre aveva a disposizione. Tramite un'amica, che lavorava in uno dei pub che frequentavamo, aveva trovato un posto da cameriera stagionale per il mese di luglio in un locale del centro e avrebbe guadagnato abbastanza denaro per potersi pagare una stanza, nello stesso albergo dove aveva soggiornato l'anno precedente. Io sarei arrivato a Palmanova già alla fine di giugno e sarei andato a prenderla al suo arrivo alla stazione di Cervignano. Insieme avremmo preso poi il pullman per Grado.

Già immaginavo la reazione di mia madre e soprattutto quella di mia zia, la madre di Federico: solo con Carola in una stanza d'albergo. Che disonore per la famiglia! Decisi che non me ne importava nulla dei loro giudizi e avrei fatto, come sempre d'altronde, quello che avevo già deciso.

Quando arrivai al Montana trovai due lettere di Doris nelle quali si scusava per non avermi mai scritto. Aveva avuto una relazione con un uomo sposato di dieci anni più vecchio di lei e, dopo sei mesi di folle amore e di promesse, un giorno le aveva detto che amava ancora sua moglie e non aveva più intenzione di lasciarla per andare a vivere con lei. Mi scriveva che le era sembrato che il mondo le crollasse addosso ed era rimasta per molto tempo senza frequentare più nessuno, immersa solo nei suoi studi. Diceva di ricordarsi spesso di me e di Renzo e che le sarebbe piaciuto poterci incontrare anche quell'anno, ma i genitori avevano saputo della sua storia e avevano deciso di punirla, restando a Sankt Johann in Pongau per tutta l'estate.

Non avevo più pensato a lei da quando mi ero messo con Carola e improvvisamente desiderai di rivederla. Avrei potuto raggiungerla ai primi di luglio, prima di andare a Palmanova, ma così facendo non avrei potuto guadagnare i soldi con la raccolta della frutta. Anche se avessi risparmiato il più possibile su quello che mi era rimasto dell'estate prima, i soldi non sarebbero comunque stati sufficienti per il biglietto del treno e per una settimana d'albergo in Austria. Le scrissi che ero dispiaciuto per quello che le era successo e che, se la cosa poteva farle piacere, sarei stato felice di andarla a trovare e di informarsi sul costo di un albergo economico vicino a lei. La risposta arrivò prima di quanto pensassi e questa volta la lettera di Doris era piena di parole affettuose e di frasi che non mi sarei mai aspettato, oltre a dei scellini austriaci di cui non ne conoscevo il valore:

" ... molte volte avrei voluto dirti che provavo per te più di una semplice amicizia... Quella sera che eravamo seduti in spiaggia e Renzo era andato a comprare la bottiglia di vino, avrei voluto che tu mi baciassi..." scriveva.

Concludeva la lettera dicendomi che non vedeva l'ora di riabbracciarmi e di non preoccuparmi per l'albergo, ci avrebbe pensato lei. Con i soldi che aveva messo nella busta avrei dovuto comprare il biglietto del treno per Sankt Johann in Pongau.

Avevo in mano la sua lettera e anche quella appena ricevuta da Carola e mi stupii di non sentirmi in colpa per quello che stavo facendo. Carola mi attraeva, scatenava in me desiderio e passione, ma forse non l'amavo. Doris, al contrario, mi faceva sentire languido e romantico e, se avesse accettato anche solo un mio bacio, mi sarei innamorato follemente di lei. Decisi di non dire a Carola che sarei andato in Austria e cominciai a pensare su come poter trovare altri soldi; anche se lei mi avrebbe pagato l'albergo, e già mi aveva mandato i soldi per il biglietto del treno, mi serviva comunque altro denaro per invitarla al ristorante, in un pub e per portarle un regalo. L'idea di come procurarmi il denaro mi venne mentre sistemavo gli sci nuovi nel deposito vicino alla palestra, dove sarebbero rimasti fino al prossimo inverno: erano degli Head Standard neri di metallo, con attacchi Tirolia. Li avevo sostituiti quell'anno ai miei Fisher di legno, ormai rovinati dal tempo e dall'usura, essendo stati il mio primo paio di sci dopo quelli di legno che il collegio metteva a disposizione per i principianti. L'attrezzatura sportiva poteva essere acquistata direttamente nel negozio del Montana, senza il permesso scritto dei genitori, in quanto era necessaria alle attività ricreative degli alunni, e quindi, sci, scarponi, guanti, racchette ecc. erano disponibili presso il punto vendita gestito dall'insegnante di ginnastica. Quell'anno il rappresentante della marca Head gliene aveva lasciati in deposito un paio neri, molto sottili e adatti alla neve fresca, per verificare se c'era richiesta da parte degli studenti per quel tipo di sci. Me ne innamorai appena li vidi e li ordinai con gli attacchi di sicurezza che permettevano lo sgancio anche posteriore in caso di caduta. Me li invidiavano tutti, soprattutto un cameriere italiano di Trento, appassionato di discesa su piste non battute e che, molte volte, forse per scherzo, mi aveva chiesto se volevo venderglieli. Mi avrebbe dato duecento franchi e nessuno avrebbe saputo nulla, dato che il suo contratto con il collegio finiva a luglio e non aveva intenzione di rinnovarlo.

Presi gli sci e mi avviai verso gli alloggi dei camerieri, sperando di trovarlo in camera sua. Ci incrociammo davanti alla porta d'ingresso e lui capì al volo; mi fece entrare e nascose gli sci nell'armadio del sottoscala.

"Eravamo d'accordo per duecento franchi. Vero?"

"Sì" risposi, impaziente di prendere il denaro.

Quando sarebbe iniziata la stagione invernale avrei denunciato il furto degli sci e ne avrei comprato un paio nuovi, sperando di trovare ancora quegli Head di colore nero. Il cameriere sarebbe partito e nessuno avrebbe mai più ritrovato i miei sci.

Mancavano quattro giorni al mio compleanno. Spesi qualche franco per il telegramma di auguri a mio cugino Federico che, proprio quel giorno, si sarebbe sposato con Stefania, una bellissima ragazza, anche lei di Palmanova e tenni per me una cinquantina di franchi; il resto lo mandai a Doris con un vaglia, pregandola di conservare lei quei soldi, altrimenti avrei rischiato di spenderli.

Le lettere di Doris diventarono sempre più frequenti e contava ormai i pochi giorni che mancavano al mio arrivo alla stazione di Sankt Johann im Pongau. Le telefonai e le chiesi se ci sarebbero stati dei problemi nel caso fossi rimasto con lei un po' a lungo della settimana prevista e la sua risposta fu: "tutto il tempo che vuoi. L'albergo dove ho prenotato la stanza per te è di un mio compagno di scuola e non mi farà pagare nulla".

"Allora arrivo appena termina la scuola", urlai di gioia al telefono.

Attesi l'uscita degli scrutini alla fine giugno, già con la valigia pronta, e telefonai a mia madre per comunicarle che ero stato promosso. Le dissi anche che non sarei partito subito; dovevo sistemare alcune mie cose nella nuova camera che mi avevano assegnato allo Chalet, la costruzione tutta in legno destinata agli studenti della maturità per il successivo anno scolastico, e poi sarei andato a stare da un mio compagno di classe a Milano per qualche giorno.

Presi al volo la funicolare per Zug e arrivai alla stazione con un'ora di anticipo sulla partenza del treno per Salisburgo. Lasciai la valigia al deposito bagagli e m'incamminai verso il centro, alla ricerca di un regalo per Doris. Volevo qualcosa di diverso, di particolare. Pensai a un gioiello, forse un anello, ma era troppo scontato e banale. Un libro fotografico: troppo personale e poi non sapevo nemmeno se le piacesse la fotografia. Forse un diario, dove poteva descrivere le sue giornate e i suoi pensieri... Sicuramente ne aveva già uno! Mi fermai davanti a un negozio di antiquario e vidi delle bambole di porcellana, vestite di merletti e con le labbra dipinte di rosso: erano bellissime. Entrai e cominciai a scegliere tra le più grandi, restando estasiato dalla qualità della manifattura, dalla perfezione dei dettagli: gli occhi sembravano guardarmi da quanto erano simili a quelli umani e le dita erano paffutelle come quelle di una bambina vera. Attaccato al piedino c'era il cartellino del prezzo e rimasi senza fiato quando lessi che quella che avevo tra le mani costava più di trecento franchi. Anche la più piccola era lontana dalle mie possibilità. Stavo per uscire alla ricerca di qualcosa di più economico, quando sentii quella musica, dal suono leggermente metallico, provenire da uno degli scaffali. Il commesso stava armeggiando con dei carillon e aveva in mano una piccola scatola che stava riponendo al suo posto, dopo averla spolverata. Era grande quanto un pacchetto di sigarette, tutta laccata di rosso e con una piccola rosa blu dipinta sul coperchio. L'aprii e dall'interno spuntò una ballerina in tulle bianco che cominciò a fare delle piroette, mentre il carillon scandiva le note della sonata Al chiaro di luna di Beethoven. Anche se fosse costato tutti i soldi che avevo, l'avrei comperato ugualmente. Il prezzo sull'etichetta riportava sessanta franchi, ma senza che io glielo chiedessi, il commesso mi disse che poteva darmela per cinquanta. Spuntai altri dieci franchi di sconto e mi feci fare un pacchetto regalo; i rimanenti dieci franchi mi sarebbero serviti per mangiare qualcosa in treno e per le sigarette. Ero entusiasta di quel regalo che avevo scelto per lei. Aspettai pazientemente che il commesso terminasse la confezione, ma poi guardai l'orologio: mancava un quarto d'ora alla partenza del treno e mi misi a correre verso la stazione di Zug. Per pochi minuti avevo rischiato di perdere il treno.

La locomotiva iniziò a rallentare, così abbassai completamente il finestrino per potermi affacciare. In lontananza apparve il cartello: St. Johann in Pongau.

Man mano che il treno si avvicinava alla stazione, vidi la tettoia di rame, che con gli anni si era ossidata ed era diventata di un bel color smeraldo, e cominciai ad intravedere la pensilina e sotto di essa alcune persone che sostavano ai bordi del marciapiedi, senza però ancora riconoscere lei in mezzo a quella folla. Ma ecco apparire i suoi capelli biondi, dai riflessi candidi, la sua figura snella, la sua mano che si agitava per salutarmi. Mi aveva visto e stava correndo verso il treno che aveva rallentato ormai la sua corsa e stava per fermarsi, accompagnato dallo stridio dei freni e dalla voce dell'altoparlante che pregava di allontanarsi dai binari. Era più bella di come la ricordavo! Il sorriso metteva in mostra i denti bianchissimi e gli occhi azzurri le brillavano di felicità. Indossava una camicetta azzurra e un paio di jeans scoloriti; ai piedi un paio di scarpe da ginnastica e in mano un piccolo mazzo di fiori di campo. Rimanemmo in piedi, uno di fronte all'altra, senza riuscire a dire una sola parola, guardandoci negli occhi, in attesa di chi avrebbe fatto la prima mossa. Fu lei a porgermi i fiori e a mettermi le braccia attorno al collo, stringendosi forte contro di me. Ancora con la valigia in mano, l'abbracciai con il braccio libero e a occhi chiusi respirai il profumo dei suoi capelli, della sua pelle, sentendo i battiti del cuore che diventavano sempre più accelerati. Restammo in quella posizione per un periodo indefinito, assaporando il piacere del contatto dei nostri corpi e scambiandoci leggeri baci sulle guance, sul collo, fino a quando le nostre labbra s'incontrarono, rimanendo incollate in un bacio caldo di desiderio.

I giorni passavano veloci, tra passeggiate nei boschi e pic-nic improvvisati sulle colline antistanti il paese, e avremmo voluto rallentare il tempo, per vivere ancora più intensamente quegli attimi di felicità che scorrevano via inesorabilmente. In un lampo i dieci giorni erano volati e la mattina della mia partenza ci svegliammo abbracciati e restammo per ore, stretti l'uno all'altra, senza dire una parola.

Il treno per il Brennero sarebbe partito a mezzogiorno e desiderai che i nostri corpi e il nostro respiro si sciogliessero tra loro, in modo che niente e nessuno avrebbe potuto separarci. Non potevo credere che tutto sarebbe finito fra qualche ora e mi stringevo ancora più forte a lei, mentre la sentivo piangere in silenzio sulla mia spalla. Allungò un braccio verso la sua borsa e prese il carillon. Dette due o tre giri di carica e aprì il coperchio, mettendo in movimento la ballerina con il vestito di tulle e le note di Beethoven. Pian piano il suono armonioso cominciò a spegnersi, fino a fermarsi, con un'ultima nota metallica. Si alzò e cominciò a rivestirsi voltandomi le spalle. Raccolse le sue cose nel bagno e, senza nemmeno pettinarsi, aprì la porta della camera per uscire. Si voltò un attimo verso il letto e vidi i suoi occhi azzurri gonfi di pianto.

"Ti amo angelo mio e non ti scorderò mai", balbettò in quel po' di italiano che conosceva, mentre si passava la mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Uscì lasciando la porta aperta.

Carola aveva telefonato più volte a mia madre dicendole che non riusciva a parlare con me. Al collegio le avevano riferito che ero già partito ed erano passati diversi giorni senza che mi fossi fatto sentire. Carola era riuscita ad imparare qualche parola di italiano e aveva capito qualcosa, ma non tutto ciò che le aveva detto mia madre, soprattutto la storia che ero dovuto andare a trovare un mio compagno di classe a Milano. Mia madre aveva cercato di tranquillizzarla, ma lei continuava a non capire e l'aveva pregata di rintracciarmi e di dirmi che aspettava una mia telefonata urgente. Appena arrivato a Palmanova, già per le scale mia madre mi disse che Carola era disperata perché non riusciva a parlarmi e mi stava cercando.

Posai la valigia e scesi al bar per telefonarle. Era molto fredda, distaccata e mi disse che sarebbe partita come da programma alla fine del mese. Non fece cenno al fatto che non mi aveva trovato al Montana, ma dalla voce capii che quando ci saremmo visti avrei dovuto trovare una spiegazione plausibile per giustificare la mia assenza.

Passai quei venti giorni assieme a Berto a raccogliere la frutta nei campi vicino ad Aquileia e, prima che lei arrivasse a Cervignano, avevo messo da parte una discreta somma che mi avrebbe consentito di pagare l'albergo e di passare le prossime settimane con lei. Nonostante fosse trascorso quasi un mese, avevo ancora sulla pelle e nella mente il ricordo di Doris. La prima sera in albergo a Grado continuavo a parlare sdraiato sul letto vicino a lei, a chiederle di come era andato il viaggio, del lavoro, di quanto le avevano dato per quel mese di lavoro, eludendo ogni suo tentativo di spegnere la luce e di abbracciarmi per fare l'amore. Anche la sera dopo successe la stessa cosa e nei giorni che seguirono fu lei a schivarmi ogni volta che mi avvicinavo per darle un bacio o quando azzardavo un approccio sotto le lenzuola. Sicuramente aveva capito che qualcosa non andava, ma non tornò più sull'argomento della mia sparizione per quelle settimane e, a poco a poco, tutto tra noi ricominciò ad tornare come prima: facevamo l'amore, quasi ogni giorno, ballavamo fino a tarda notte nella discoteca sulla terrazza di un albergo di Grado e rimanevamo abbracciati sotto il sole caldo, facendo progetti sul mio prossimo viaggio ad Amburgo.

Le dissi che per Natale non sarebbe stato possibile; non ero più andato a trovare mia madre a Torino da molto tempo e quell'anno, oltretutto, avevo gli esami di maturità. Ne avrei approfittato per ripassare il programma e anche per prendere qualche lezione privata di chimica, materia nella quale avevo delle grosse lacune. Ci saremmo potuti vedere per le vacanze pasquali, sempre se lo zio aveva ancora quella stanza disponibile all'hotel Thomfort di Amburgo.

Mia madre continuava a non stare bene e quell'anno a Grado era venuta in spiaggia di rado. Le dava fastidio il sole e la confusione. Rimaneva in camera a leggere, oppure seduta ad un tavolo del bar della spiaggia, con lo sguardo fisso su un punto indefinito, spesso parlando da sola. L'argomento era sempre lo stesso: vecchie discussioni con mio padre che riaffioravano nella sua mente. Non riusciva a dimenticarlo e, nonostante tutto il male ricevuto e il completo disinteresse che lui aveva dimostrato nei suoi confronti, e anche nei miei, non inviandole nemmeno più una lira da parecchi mesi, credo ne fosse ancora innamorata.

Quando affrontava il problema con le sorelle e loro cercavano di farle aprire gli occhi sulla realtà e sull'impossibilità di una vita insieme a mio padre, lei prendeva le difese del marito ed era convinta che prima o poi lui si sarebbe stancato di correre appresso a qualche gonnella e l'avrebbe fatta tornare ad Asmara. Nei suoi ipotetici programmi, ovviamente, non c'era spazio per me. Nemmeno una volta ricordo di averle sentito dire che tornare insieme al marito sarebbe stato innanzitutto utile per la mia formazione, per la mia educazione. La presenza di mio padre sarebbe stata importante per affrontare le mie decisioni e per discutere, assieme a lui, i miei progetti futuri. Sempre più mi rendevo conto dell'incredibile egoismo di entrambi e non mi riusciva di capire perché avessero deciso di mettere al mondo un figlio, anzi, due. Sapevo che miei compagni si erano consultati con i loro genitori per farsi suggerire quale facoltà scegliere dopo il liceo e, quasi tutti, avevano ormai le idee abbastanza chiare su quello che avrebbero fatto. Pietro, il mio ex compagno di camera, si sarebbe iscritto a lettere e filosofia. Chicco, per la sua passione per la storia, avrebbe scelto la facoltà di scienze politiche. Mario, detto anche Pinna, non aveva dei progetti precisi, ma il padre, da buon partenopeo, gli aveva suggerito di iscriversi a giurisprudenza: un avvocato in famiglia non avrebbe guastato. August era molto ricco; il padre era uno dei più importanti commercianti di diamanti in Europa, quindi, per lui una facoltà valeva l'altra, ma sarebbe rimasto comunque ad Anversa. Luigi, Giotto per gli amici, avrebbe seguito la strada del padre e si sarebbe iscritto a ingegneria e così pure Roberto. A Silvio dell'università non importava nulla: era un businessman nato e aveva in mente di aprire una fabbrica in qualche paese dell'estremo oriente, sicuramente aiutato agli inizi dal padre, che possedeva delle quote della società che gestiva il Casinò di Campione. Io non sapevo proprio cosa fare! Mi piaceva disegnare e dipingere, cantare accom-pagnandomi con la chitarra, amavo gli animali e la natura, così pensai che forse mi sarei iscritto ad agraria. In fondo mio padre aveva una concessione di banane e aveva anche portato a termine il progetto per la coltivazione di frutta fuori stagione. Avrei potuto collaborare con lui, se me lo avesse proposto. Non credo di avergliene mai parlato, nemmeno quella volta che mi telefonò per dirmi che era a Parigi e che gli avrebbe fatto piacere se lo avessi raggiunto. Era poco prima di Natale. Ritirai il prepagato presso un'agenzia di viaggi di Zug e ci incontrammo agli arrivi dell'aeroporto di Orly. Ricordo che invece di abbracciarmi, mi dette la mano come la si dà a un amico o addirittura a un estraneo, dicendomi che ero diventato un uomo e che gli assomigliavo. Restammo un giorno a Parigi, dove mi fece incontrare il suo agente per la Francia, e poi partimmo per Francoforte. Aveva un importante appuntamento a Offenbach per un contratto con un importatore tedesco di banane. Ecco perché mi aveva chiesto di andare da lui! Gli serviva una persona che parlasse il tedesco e che gli facesse non solo da interprete, ma che capisse quello che i suoi interlocutori si sarebbero detti durante la riunione.

Faceva freddo e io avevo addosso solo la giacca di renna che mi aveva regalato mia madre. Quando mi riaccompagnò all'aeroporto si tolse il cappotto spigato, un modello di dieci anni prima, e mi disse di prenderlo. Me lo regalava; a lui in fondo andava stretto e comunque sarebbe ripartito il giorno stesso per Asmara e non gli serviva più. Avrei voluto buttarglielo in faccia, ma lo presi ugualmente e lo ringraziai. Lo abbandonai poco dopo su un sedile della sala d'attesa, prima d'imbarcarmi sul volo per Torino. Lo odiavo con tutto me stesso e ripensai a quando, da bambino, con il mio fucile ad aria compressa avevo sparato alla sua macchina, mentre passava in compagnia di una donna. Avevo un'ottima mira ma il colpo aveva solo scalfitto il parabrezza all'altezza del viso. Credette che fosse stato un sasso lanciato da qualche scugnizzo di colore e non pensò mai che quel segno era stato provocato da un pallino di piombo del mio fucile e che, se avessi avuto un'arma vera, ci sarebbe stato un buco e il proiettile probabilmente lo avrebbe colpito in faccia.

Prima di partire per Parigi avevo detto a mia madre che lo avrei incontrato e lei la sola cosa che riuscì a dirmi, senza darmi nemmeno il tempo di spiegarle cosa ci eravamo detti al telefono, fu:

"Io qui, a combattere per trovare i soldi dell'affitto e lui in giro per il mondo, magari con qualche puttana. Spero che ti darà dei soldi per me, almeno?"

Sentii la rabbia salirmi dentro e me ne sarei andato, ma provavo pietà e affetto per quella povera donna che aveva dovuto sopportare, per tanto tempo, un marito così. Si era inaridita e non era nemmeno colpa sua se ogni pensiero che le passava per la mente era rivolto solamente a quella persona che le aveva rovinato la vita.

Non risposi e le misi un braccio intorno alle spalle, dandole un bacio sulla fronte e promettendole che gli avrei chiesto di darmi dei soldi per lei.

E anche quell'anno arrivò il Natale; non mi emozionava più da tanto tempo e non sopportavo proprio quella farsa di buonismo che la ricorrenza vuole imporre ad ognuno di noi. Che significato aveva quell'albero addobbato e illuminato di luci multicolori? Quei pacchi confezionati alla meglio con all'interno regali acquistati forse qualche mese prima o riciclati per l'occorrenza? Un maglione, una camicia, un paio di calze pesanti per il freddo o semplicemente il solito paio di ciabatte che avevo ricevuto in regalo l'anno prima e quello prima ancora. Non ce l'avevo con lei, poverina, perché sapevo che aveva dei grossi problemi economici e spesso si vergognava di chiedere ai parenti di darle qualcosa, ma desideravo semplicemente che lei la smettesse di parlare di mio padre, almeno durante quella Festa, e che si dedicasse un po' a me, ai miei problemi. Mi sarebbe bastato sentirla felice, per il semplice fatto che ero lì con lei. Dei regali non me ne fregava proprio niente.

Presi qualche lezione di chimica da un professor di Torino in pensione e mi sentii in colpa per i soldi che mia madre aveva dovuto spendere. Il resto delle vacanze lo passai a studiare e, nel tempo libero, a dipingere o giocare a scacchi con Pietro, mio cugino. Era diventato un bravo ragazzo, molto studioso e gli volevo un gran bene. Percepivo che mi invidiava per il fatto che studiavo in un collegio svizzero, che viaggiavo spesso e che sapevo sciare e suonare la chitarra. Gli piaceva osservarmi mentre dipingevo e avrebbe voluto farlo anche lui. Ma non sapeva che ero io a invidiare lui: avrei voluto la sua serenità, il calore familiare di cui era circondato e il fatto che dormiva da sempre accanto ai suoi genitori e che poteva contare su di loro in qualsiasi momento. Non capiva che, dietro quella mia maschera da duro e quasi da uomo vissuto, si nascondeva una profonda solitudine e un bisogno indescrivibile di una carezza e di affetto, tutto quell'affetto che non ero mai riuscito ad avere.

Gli insegnai come stendere la tempera e ad usare il chiaroscuro con la matita, così anche lui incominciò a dipingere e a disegnare; direi anche con dei buoni risultati. Ricordo un ritratto che fece a nostra nonna da una fotografia formato tessera usando semplicemente la matita; era davvero molto somigliante ed aveva soprattutto riprodotto, in modo perfetto, la sua espressione.

Aspettavo con ansia che le vacanze natalizie finissero per tornarmene al Montana. A parte Pietro, non c'era nulla che mi legava a quella città così fredda e grigia. Non mi piaceva Torino e non mi piaceva la gente: troppo distaccata e cortesemente falsa, come era usanza dire dei torinesi. Anche le persone che abitavano nel mio palazzo mi erano profondamente antipatiche, in modo particolare una signora che abitava al piano sotto al mio. Mi spiava quando uscivo e quando rientravo e una volta mi disse, mentre passavo davanti alla sua porta nel scendere le scale a piedi:

"Ma non hai freddo a uscire solo con quella giacchetta di pelle? Pensi di stare ancora in Africa?".

La mandai a fare in culo senza mezzi termini e da quella volta non socchiuse più la porta per spiarmi; in compenso mi osservava dallo spioncino ed io, regolarmente, passavo davanti a quell'occhio indiscreto e le facevo il gesto che equivaleva a quello che le avevo consigliato di fare, ma a parole.

Sapevo di non essere all'altezza degli altri miei compagni e, un po' per la paura degli esami, un po' perché l'orgoglio era più forte della mia abituale pigrizia, quando tornai in collegio dalla vacanze natalizie mi misi a studiare tutti i giorni e spesso anche la notte. Dovevo a tutti i costi superare la maturità e, anche se Torino non era certo la mia città preferita, mi sarei iscritto ad architettura presso il politecnico del Valentino. Avevo sfogliato qualche rivista di arredamento e di oggettistica e avevo deciso che avrei sfruttato le mie capacità nel disegno. Riuscivo bene anche nel disegno geometrico e mi divertivo anche ad inventare oggetti d'arredamento dalle forme avveniristiche. Sì, sarei diventato un architetto e mi sarei specializzato nel design.

Se mia madre non ce l'avesse fatta a pagare la retta, pensavo già di dipingere dei quadri e di venderli per mantenermi agli studi. Ero certo che ci sarei riuscito!

Con Carola continuavamo a scriverci ogni giorno e potevo ormai dire di parlare il tedesco perfettamente. Infatti, agli esami di maturità, il voto più alto lo presi proprio in quella materia.

Gli esami si sarebbero svolti a Berna davanti ad una commissione esterna, venuta apposta dall'Italia. Il primo esame era quello di italiano scritto. Eravamo tutti molto nervosi e la sera prima avevamo avuto il permesso di andare in città a bere qualcosa, con l'impegno di rientrare al più tardi per le dieci. Io andai con Pietro, il mio ex compagno di camera, in una birreria dove conoscemmo la ragazza danese che serviva ai tavoli. Non era bella, ma mi piaceva il suo modo di sorridere e la sua vivacità. Lei e la sua collega avrebbero staccato alle undici e convinsi Pietro a rimanere con me ad aspettarle. Ci avevano invitati a casa loro a passare un po' di tempo e a bere qualcosa; l'idea di stare con una ragazza mi stimolava, visto che, a parte un'avventura con una cameriera spagnola del Montana qualche mese prima, non facevo sesso da quando avevo lasciato Carola a Grado l'estate prima. Anche se le avevo promesso che sarei andato a trovarla a Pasqua, non mi era stato possibile, non avendo nemmeno i soldi per il biglietto del treno. Con riluttanza Pietro accettò, ma mi disse che a lui l'amica non piaceva affatto; per farmi piacere mi avrebbe accompagnato, ma non sarebbe venuto dove abitavano le due ragazze. Rimasi nella loro camera per un paio d'ore e, all'una di notte, scesi a cercare Pietro. Lo trovai Pietro davanti ad un portone che metteva le monete da cinque centesimi sulle rotaie del tram per farle diventare sottili come un'ostia. Scoppiai a ridere a crepapelle e ci incamminammo velocemente verso la collina dove c'era l'Hotel Gurten.

Nonostante filosofia fosse una delle mie materie preferite, venni rimandato; mi avevano fatto solo domande su uno dei pochi filosofi il cui pensiero non mi piaceva e che non condividevo: Benedetto Croce. Feci quasi scena muta e ottenni l'inevitabile rinvio agli esami di riparazione.

Passai una parte dell'estate a Grado con Carola e il resto del tempo a Prali Ghigo, nelle montagne piemontesi, a studiare per gli esami autunnali, che superai senza difficoltà. Ero riuscito a prendere il diploma di liceo scientifico e a breve mi sarei iscritto ad architettura.

Mio cugino Pietro mi aveva raggiunto a Berna per gli esami di riparazione e il giorno seguente saremmo partiti per Torino in treno; lui aveva già il biglietto di ritorno, ma io avevo speso parecchio nel pub dove eravamo andati la sera a festeggiare e mi erano rimasti pochi soldi in tasca. Con i franchi svizzeri avanzati ero riuscito solo a comprare un biglietto di seconda classe fino a Chiasso, dove fummo così costretti a scendere. Pietro aveva qualche centinaio di lire nel portafogli e avevamo fame. Cercammo un ristorante senza pretese per mettere qualcosa sotto i denti, magari solo un piatto di pasta, e trovammo in una via lontana dal centro un locale con i prezzi esposti sulla finestra. Mentre Pietro controllava se i soldi che aveva in tasca sarebbero bastati per due piatti di spaghetti, davanti ai nostri occhi passò un cameriere con un vassoio di pasta al pomodoro. Non ci eravamo accorti che dall'interno del locale il proprietario aveva assistito alla scena di noi che seguivamo con lo sguardo quel piatto fumante e che contavamo gli spicci. Sì e no potevamo permetterci un primo piatto, ma entrammo ugualmente nel locale, dove Pietro ordinò una porzione di spaghetti, dicendo che io non avevo fame. Avrei diviso il piatto con mio cugino, senza che se ne accorgessero. Il proprietario prese l'ordinazione che avevamo fatto al cameriere e, sorridendoci, ci disse che un'altra porzione l'avrebbe offerta la casa.

Erano porzioni davvero abbondanti e sufficienti a colmare il vuoto rimasto dall'ultimo pasto di due giorni prima. Il viaggio da Chiasso a Milano lo facemmo spostandoci da uno scompartimento all'altro, sperando di non incontrare il controllore; lo stesso espediente lo utilizzammo per la tratta da Milano a Torino Porta Susa.

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