UNA TENDA COLOR VERDE CHARO 1a parte


Il Console

Il caldo sole africano illuminava la stanza mettendo in risalto le screpolature dei muri e lo sporco accumulatosi negli anni lungo il battiscopa e negli angoli, dove il parquet conservava ancora il suo colore originale, un bel rosso palissandro, in netto contrasto con il color nocciola spento del legno al centro della stanza e davanti alla porta massiccia pitturata di bianco. Un moscone ronzava rumorosamente sopra la sua testa e ogni tanto sbatteva contro i vetri della finestra che affacciava sul giardino, parzialmente nascosto dalle foglie della grande palma da dattero, e restava immobile per qualche secondo, per poi ricominciare a volare fastidiosamente nella stanza, passando a pochi centimetri dalle sue orecchie. Aveva cercato di schiacciarlo quando si era posato sulle carte sparse sulla scrivania, anche questa di legno scuro, ma, nonostante si avvicinasse il più possibile con il giornale piegato in due per avere una migliore presa, l'insetto riusciva a volare via prima che riuscisse a colpirlo.

Fra pochi giorni ci sarebbe stato il Meskel, la festa etiopica che ogni anno rievoca il ritrovamento da parte di Sant'Elena, madre di Costantino, della "Vera Croce" e per Michelangelo Onofri di Castelmonte il ventesimo mese dalla sua nomina a console italiano in Eritrea.

Gli pareva fosse trascorso un secolo dal giorno che era arrivato ad Asmara, accolto all'aeroporto dal console uscente con una forte stretta di mano. Durante il viaggio in macchina fino alla sede del Consolato lo aveva sommerso di innumerevoli consigli su come comportarsi con la comunità italiana e con la popolazione locale, quali erano i ristoranti che servivano i migliori piatti tipici della cucina italiana, i cinema e i locali di ritrovo degli italiani residenti in quella città che scorreva davanti al finestrino di una vecchia Fiat 1900 di proprietà del Consolato. L'aveva immaginata diversa, esotica, con case basse e strade strette, mentre Asmara sembrava una città italiana, per alcuni versi anche più bella: strade ampie e pulite, costruzioni di tipica architettura fascista, palazzi, viali e giardini ben curati. Il viale principale era pieno di negozi e bar con insegne italiane, automobili, gente di ogni razza e colore e solo la presenza dei nativi, nel loro costume tradizionale chiamato "futa", delle carrozzelle trainate da magri ronzini e dei rumorosi risciò Piaggio, utilizzati al posto dei taxi, gli ricordavano che era arrivato in Africa.

A malapena ascoltava l'ex console italiano che continuava a parlare:

"Sono cose che ho imparato in questi dieci anni di lavoro e di vita intensa in Eritrea, a diretto contatto con questo meraviglioso popolo, le cui origini risalgono addirittura a re Salomone." "Questo non va dimenticato", così ripeteva ogni volta che gli raccomandava un certo comportamento o un atteggiamento da tenersi in determinate occasioni.

Prima di raggiungere il Consolato, l'autovettura si era fermata in una via del quartiere alto della città dove c'era la residenza del console, "Villa Roma", e avevano scaricato le valigie di Michelangelo Onofri di Castelmonte. Le avrebbero sistemate temporaneamente nella dependance della villa, in attesa che il console uscente la liberasse dalle sue cose e ripartisse per l'Italia; poi il nuovo Console avrebbe finalmente potuto far arrivare sua moglie da Roma e prendere possesso della residenza diplomatica a tutti gli effetti.

L'ex console era rimasto al suo fianco una decina di giorni, prima di rimpatriare alla scadenza del mandato e anche per raggiunti limiti d'età, essendo ormai prossimo alla sessantina.

Michelangelo aveva letto molti libri sull'Etiopia, dopo che gli era stato confermato l'incarico dal governo italiano: libri di storia, anche recente, sulla colonizzazione voluta da Benito Mussolini e sull'occupazione dell'Eritrea e dell'Etiopia da parte delle nostre truppe e sulle battaglie contro gli indigeni prima, e contro gli inglesi poi. E ancora altri libri sulle origini di quel popolo, così diverso dalle altre etnie africane, così austero e bello, dai lineamenti regolari del viso e dal naso pronunciato e non schiacciato, tipico delle popolazioni del centro Africa o di quelle della costa occidentale.

In un poema del XIV secolo, scritto da autore ignoto, si narrava che la regina di Saba si fosse recata a Gerusalemme per conoscere re Salomone. Lei era etiope e aveva un nome delicato e affascinante: Makeda. Re Salomone fu colpito dalla sua bellezza e dal suo fascino, nonché dai doni che lei gli aveva portato con la carovana che aveva al seguito. Dato che Makeda sapeva delle centinaia di regine e concubine di cui re Salomone si circondava, gli aveva fatto giurare che lui non l'avrebbe mai presa con la forza. Lei era vergine e se fosse tornata sedotta al suo villaggio, avrebbe subito dolori fisici e morali. Davanti a tanta ingenuità, lui le promise che non sarebbe avvenuto senza il suo consenso e la sfidò ad una scommessa, sapendo che non poteva perdere: il patto era che Makeda non prendesse nulla all'interno della reggia prima della sua partenza. Lei davanti a questo gioco si incuriosì, anche lei sicura di non poter perdere. Si era chiesta, infatti, perché avrebbe dovuto prendere un qualsiasi oggetto, senza chiederlo, in quella casa colma di ricchezze, essendo il suo regno altrettanto ricco. Salomone, dopo aver fatto servire un lauto pasto, con cibi speziati e piccanti e bevande miscelate ad arte con dell'aceto, le propose di rimanere nella sua reggia fino al mattino; poi sarebbe potuta ripartire. A notte fonda Makeda si svegliò a causa della seta intensa che il cibo le aveva procurato e, dopo essersi accertata che il re dormisse, si versò un bicchiere d'acqua da una brocca al lato del letto. Salomone, che aveva fatto finta di dormire e l'aveva osservata dal momento in cui si era coricata, si alzò dal suo letto e l'accusò di aver sottratto una cosa non sua. Lei si scusò dicendo che era solo dell'acqua, nulla di prezioso e custodito nella sua casa; lui le chiese allora se avesse mai visto sotto il cielo qualcosa di più prezioso dell'acqua.

Al rientro in Etiopia, Makeda partorì dopo nove mesi un bambino: Menelik. Non appena adulto, decise di voler conoscere suo padre e anche lui percorse il lungo viaggio verso Gerusalemme, dove, prima di ripartire, s'impadronì dell'Arca dell'Alleanza, una teca dove si diceva venissero custodite le tavole di Mosè e che oggi molti credono sia gelosamente e segretamente conservata nella cattedrale copta di Maryam Zion ad Axum, ma nessuno è riuscito a confermare con certezza questa notizia.

La storia a quel punto si veste di mistero e di elementi fantastici che porteranno Michelangelo, futuro console di Asmara, ad approfondire in seguito le conoscenze storiche su quel paese dove avrebbe vissuto i suoi prossimi anni.

Mentre esaminava le pratiche, poste con ordine sull'antica scrivania di ciliegio, senza una ragione precisa, gli venne in mente Gudit, conosciuta anche con il nome di Yodit, un altro personaggio storico che gli era rimasto impresso durante le letture su quell'antico paese. Era anch'essa una regina di origini ebraiche ed aveva iniziato una guerra contro il regno di Axum, sconfiggendolo. Quella guerra aveva portato alla distruzione della civiltà axumita, lasciando le città, i monasteri e le chiese bruciati e in cenere. Il regno di Gudit si era poi ritirato nella parte meridionale del paese, in cerca di un rifugio sicuro dove conservare gli oggetti più sacri e preziosi appartenuti ad Axum e tra questi, forse, anche l'Arca dell'Alleanza. Il potere sull'Etiopia era così passato alla dinastia degli Zagwe, i quali sostenevano che re Salomone avesse avuto una relazione anche con una delle cameriere al seguito di Makeda e che questa, di nascosto della sua regina, avesse partorito il capostipite della loro dinastia, alla quale apparteneva Hailè Sellasiè, discendente quindi di re Salomone, e proclamato duecentoventicinquesimo imperatore d'Etiopia nel lontano 1930.

Il sole filtrava dalla grande finestra e illuminava quelle tre cartelle color arancio con impresso lo stemma della Repubblica Italiana; su ognuna lo stesso cognome ma un numero diverso di protocollo: Gazzano 2494, Gazzano 2512, Gazzano 2517.

La prima riguardava la denuncia da parte di Cristoforo Gazzano della scomparsa della sua pistola Beretta dalla scrivania del negozio di frutta che aveva aperto nel mercato coperto di Asmara al suo rientro definitivo da Addis Abeba; non aveva sospetti e la denuncia era stata fatta contro ignoti.

La numero 2512 riguardava Pietro Gazzano, trovato assassinato nel suo ufficio, dopo tre giorni dalla sua morte, con un buco di proiettile in piena fronte. Questo avvenimento risaliva a circa dieci giorni dalla scomparsa della pistola appartenuta a suo fratello Cristoforo, ma non si poteva ancora supporre un legame tra i due fatti.

Un legame poteva invece esserci tra la numero 2512 e la pratica 2517: quest'ultima riguardava il tentato omicidio o il tentativo di suicidio di Giovanni Gazzano, figlio di Pietro e ricoverato da giorni nell'ospedale italiano di Asmara in prognosi riservata, apparentemente in coma irreversibile.

Un foro alla tempia destra e la similitudine con la pratica 2512 era data dal fatto che il foro d'entrata era del tutto simile a quello riscontrato su Pietro Gazzano.

Giovanni Gazzano era stato ritrovato agonizzante nella sua automobile da un passante che aveva subito avvertito la polizia. La macchina era parcheggiata a pochi metri dall'entrata del cimitero italiano. Erano stati fatti dei rilievi, ma non era stata ritrovata la pistola, nonostante l'abitacolo fosse stato a lungo perquisito. Da qui il dubbio sulla possibilità di un tentato omicidio, anche se l'atteggiamento disteso delle braccia del giovane Gazzano e il foro d'entrata, con lievi segni di bruciatura, facevano pensare ad uno sparo da distanza molto ravvicinata e quindi ad un suicidio. Ma come poteva aver tentato di suicidarsi e aver poi buttato via l'arma? Era assurdo solo pensare a un'ipotesi così inverosimile, ma la mancanza dell'arma del delitto continuava ad ostacolare le indagini degli inquirenti e ad incuriosire il console.

Il Gazzano aveva subito un lungo e delicato intervento chirurgico per rimuovere un grosso grumo di sangue che spingeva contro la parete cranica, causato da una grave emorragia che aveva portato ad uno shock traumatico, con un apporto inadeguato di liquidi e di ossigeno agli organi vitali. La pallottola aveva attraversato da parte a parte il cranio ed era rimasta conficcata nel montante sinistro dello sportello dell'autovettura. Fu prelevata con fatica dagli inquirenti, che dovettero estrarla con cautela per non danneggiarla, e consegnata alla polizia locale che, però, non poteva procedere immediatamente ad un esame approfondito, non essendoci un laboratorio balistico in tutta l'Etiopia. Anche la pallottola che aveva ucciso Pietro Gazzano, ma che aveva perforato il cranio fermandosi contro la parete occipitale, era stata prelevata e custodita dalla polizia.

Dopo l'autopsia di rito, eseguita ad Addis Abeba, non essendoci un reparto di anatomia patologica o di medicina legale per l'esame post mortem ad Asmara, il corpo era rimasto ad Addis Abeba e la pallottola inviata alla polizia di Asmara e custodita in attesa di controlli più approfonditi. Si sperava di trovare l'arma da dove era stata sparata o scoprire il colpevole di quell'omicidio per chiudere, eventualmente, le indagini in corso.

Avevano anche cercato di avere informazioni sulla vita privata di Pietro Gazzano, sulle sue amicizie e sui posti che maggiormente frequentava, per scoprire se avesse avuto dei nemici che avrebbero potuto avere delle ragioni per ucciderlo. L'unica cosa interessante che avevano scoperto era un pettegolezzo che poteva essere considerato una pista da seguire: si vociferava che il Gazzano, oltre a guadagnare molto bene nella ditta di trasporti dove lavorava, concedesse prestiti a tassi d'interesse molto elevati. Praticamente si vociferava che fosse uno strozzino, ma ad ammetterlo non faceva comodo a nessuno. La ricerca del possibile colpevole fu quindi indirizzata verso commercianti o piccoli imprenditori di Asmara. Era comunque difficile trovare qualcuno disposto a parlare, dato che in quella città dell'Eritrea, abitata principalmente da ex coloniali provenienti dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Puglia, era evidente che, per omertà, tutte le persone interrogate negassero che il signor Pietro era un poco di buono; anzi, tutti lo descrivevano come un gran lavoratore, un buon marito e un ottimo padre di famiglia.

Il console, dopo varie insistenze, caldeggiate anche dal ministero degli esteri a Roma, era riuscito ad ottenere l'autorizzazione dalle alte sfere del Governo di Addis Abeba a farsi consegnare dalla polizia i due reperti. Li aveva inviati con urgenza alle autorità italiane, affinché la scientifica potesse esaminare entrambi i proiettili e fare un po' di luce sui quei due casi, all'apparenza collegati tra loro.

Il responso era atteso per quella mattina e Michelangelo era nervoso e impaziente di ricevere il telegramma dal ministero.

Il telegramma arrivò nel tardo pomeriggio, alle sei, ora locale, le quattro ora italiana. Poche righe, concise ma inequivocabili. Il messaggio diceva che, da un attento esame balistico, nonostante uno dei due proiettili risultasse rovinato dall'impatto con del metallo, si poteva stabilire, con poche possibilità di errore, che entrambi i proiettili erano stati esplosi dalla stessa arma.

La morte o la mia coscienza

Qualcuno mi sta facendo delle domande, ma non riesco a distinguerne il volto. Ha la barba bianca, come i capelli. La sua presenza mi fa sentire leggero ed ho la sensazione che mi siano spuntate di colpo le ali. Sorrido inconsciamente e penso che forse è la morte che è venuta a prendermi; o forse è solo la mia coscienza.

Leggo le sue labbra, ma non riesco a sentire cosa mi sta dicendo, e rimango fisso a guardare il suo viso sereno.

"Non preoccuparti; non è successo niente", sussurra. "Cerca di rilassarti e dimmi come ti chiami?"

"Mi chiamo Giovanni, almeno credo", rispondo.

"E da dove vieni?"

Ascolto le sue domande e la mia voce sembra amplificata, raddoppiata, moltiplicata, come quando gridi il tuo nome in alta montagna e l'eco lo ripete fino a sentirlo appena, per poi farlo scomparire del tutto; ma dalla mia bocca non esce alcun suono.

"Sono nato ad Asmara, in Eritrea."

E lui: "in che anno?"

Ma perché insiste con queste stupide domande, mi chiedo. Che importanza ha per questo vecchio sapere chi sono, da dove vengo o dove sono nato! Se fosse la morte, conoscerebbe già il mio nome e tutto il resto, oppure cosa stavo facendo prima di finire in questo letto d'ospedale. Vorrei restare in silenzio ma anche rispondergli, così mi sforzo di ricordare, ma non ci riesco. È come se fosse calato il buio sui miei ricordi e un vuoto totale avvolge il mio spazio, lanciandomi addosso un silenzio che assorda i miei pensieri

D'improvviso intravedo il mio passato: è un puzzle di migliaia – che dico – centinaia di migliaia di piccoli pezzi che provano a ricomporsi, prima parzialmente, cercando di raggiungersi uno con l'altro, pezzo dopo pezzo, spazio dopo spazio, poi tutti insieme fino a quasi a riunirsi, e subito dopo ritornare al caos di prima, con gli stessi pezzi diversi tra loro, a volte colorati, a volte scuri e bui, pronti però a provare a ricercarsi ancora uno con l'altro, fino ad unirsi finalmente in un disegno sensato, fatto di tasselli che ora combaciano perfettamente, creando delle immagini familiari.

Ora sento di poter rispondere e lo faccio:

"sono nato a maggio, non ricordo esattamente il giorno e nemmeno l'anno, ma sono sicuro che era maggio"

"Hai voglia di raccontarmi di te, della tua vita", incalza, accarezzandomi la testa, "se ti aiuta a stare meglio, fallo, con calma, rilassandoti" "abbiamo tanto tempo davanti a noi",insiste con la sua voce, calma, pacata e rasserenante.

In effetti sento un'improvvisa voglia di parlare di me, del mio passato e vorrei farlo, ma continua a non uscire alcun suono dalla mia bocca.

Il vecchio dalla lunga barba bianca si avvicina al mio volto e mi guarda negli occhi; poi sposta la mano sul mio viso e mi fa un cenno con il capo. Capisco che vuole ascoltarmi e che non ha bisogno della mia voce per raccogliere le mie parole. Dal suo corpo si spande un profumo di lantana, come quella che avvolgeva, con i suoi cespugli e i suoi fiori di vari colori, la villetta dove viveva mia nonna paterna. È un profumo dolce e pieno di bei ricordi di quando ero bambino.

Provo di nuovo a rispondere. Voglio parlare e raccontare la mia vita, non pensarla soltanto, ma non riesco a comunicare con lui, se non attraverso il pensiero.

Improvvisamente però dell'aria scorre nella mia gola, fino ad arrivarmi dentro la bocca. Ne esce un sospiro rauco che si tramuta in parole incomprensibili. Aspiro ed espiro forte fino a che l'aria nel mio corpo e nella mia bocca diventa più pulita ed inizia a tramutarsi in suoni, poi in parole, e infine in piccole frasi:

"Giovanni" … mi chiamo … Giovanni Gazzano, come mio nonno".

La voce mi sta tornando e sento che le mie parole si fanno man mano più nitide: "ho anche il nome dell'altro mio nonno" continuo, "quello materno, Matteo, e da un'usanza siciliana hanno voluto appiopparmi anche un terzo nome: Maria."

Un turbinio di suoni, di immagini, alcune sbiadite ed altre perfettamente nitide, di odori, di sensazioni e di sofferenza si rincorrono e rimbalzano da una parete all'altra della stanza. Mi sento trasportato con forza indietro nel tempo, addirittura a quando ancora non ero nato, e mi sembra di rivivere quei momenti lontani come se fossero appena trascorsi. Rivedo i miei avi, anche se non li ho mai conosciuti, la mia famiglia e comincio a ricordare, ma forse sto solo fantasticando.

Ora mi vedo: sono nel grembo di mia madre ed è vicino l'attimo in cui potrò scoprire questo mondo di cui non so nulla e che certamente non ho cercato. Poi il sangue e uno strillo che libera la mia bocca e il mio naso da grumi di sangue e muco. Ora sono tra le braccia di mia madre e già mi sento scomodo. Vorrei liberarmi da quella stretta e fuggire, anche da quegli occhi che mi osservano e sorridono di felicità. Io non sono felice, però, perché continuo a piangere e non mi piace quello sguardo che mi scruta da troppo vicino. Quegli occhi sembrano parlarmi, come se stessero cercando un mio consenso ad essere scrutato. Poi, di colpo, spaventandomi a morte, un urlo: "assomiglia tutto a me"!

È mio padre che grida forte vicino al mio orecchio.

Sto tremando e tengo nella mia mano quella del vecchio. Sono scosso da un tremito e lui non mi chiede più di parlare. Mi sorride e lo fa muovendo leggermente la testa, come per invogliarmi a recuperare il mio tempo. I brividi si affievoliscono e gli sorrido anch'io, o forse penso di farlo, e continuo il percorso a ritroso nella mia vita.

Senza uno specifico motivo affiora il ricordo di mio nonno paterno, che non ho mai conosciuto. È una sua foto che mia nonna ha nascosto nel cassetto della sua macchina da cucire e lo ritrae con il fucile in mano, seduto su una sedia di vimini con accanto a lui mia nonna, in piedi, una mano appoggiata sulla spalla del marito e l'altra sul calcio di una pistola che le pende dal fianco. Sembrano Bonnie e Clyde, solo che non sorridono come gli attori del film, ma hanno uno sguardo truce, soprattutto mia nonna. Una cosa mi è chiara: non penso fossero dei tranquilli cittadini – per così dire – casa e chiesa! La foto, ingiallita per il trascorrere degli anni e con gli angoli smussati, è stata scattata in uno studio dove lo sfondo è dipinto su una grande tela e raffigura un paesaggio siciliano, con colline arse dal sole e sentieri fiancheggiati da fichi d'india e muretti di pietra. In lontananza, sapientemente sfumato, il contorno dell'Etna e una nuvola di fumo che si innalza verso il cielo terso.

Nonostante la foto sia in bianco e nero, i particolari sono così ben delineati che sembra di catturare i colori originali: il verde delle foglie del fico d'india, il giallo e il rosso dei suoi frutti, l'azzurro del cielo alle spalle dei miei nonni, sicuramente vestiti di scuro, forse di nero.

Non ho mai capito, e nessuno dei miei parenti me lo ha mai spiegato, se mio nonno morì prima che tutta la famiglia si trasferisse in Eritrea e se quel lungo viaggio avesse avuto a che fare con la sua morte prematura.

Mia nonna aveva avuto nove figli, sei dei quali erano ancora vivi; erano partiti tutti con lei per Asmara all'inizio degli anni trenta. Che fine avessero fatto gli altri tre non me lo avevano mai detto e non dovevo chiederlo, come non avevo il permesso di chiedere come e dove fosse morto mio nonno.

Avevo trovato solo un'altra sua foto: questa lo ritraeva a mezzo busto e sembrava una di quelle foto che si utilizzavano, riprodotte su ceramica, per essere cementate su una lastra di marmo o incastonate in una croce di ferro battuto, come se ne vedono spesso nei vecchi cimiteri di paese. Aveva una giacca rigata, forse un gessato, che gli cadeva male sulle spalle troppo larghe ed era troppo corta di maniche. Le sue mani erano grandi, nodose e la camicia era chiusa da una cravatta dal nodo piccolo, allacciata intorno ad un colletto pieno di pieghe. Forse la giacca non era la sua e gliela avevano fatta indossare, assieme alla cravatta, per l'occasione del ritratto.

Aveva un bel paio di baffoni, un naso importante e due occhi grandi e profondi.

Il viso, non rasato di fresco, in quella foto è serio e i capelli ordinati alla meglio, forse con una passata di dita inumidite per dargli una piega sommaria. Chissà se quella foto sarà stata usata per completare la sua tomba, sempre che ne abbia avuta una.

I piroscafi

Qualche anno dopo essersi trasferiti da Enna in Eritrea, il nucleo familiare si divise e ad Asmara rimasero solo mia nonna e tre dei sei figli; gli altri tre preferirono andarsene: Gaetano a Lagos, Cristoforo ad Addis Abeba, e Concetta a Palermo. Quest'ultima si diceva che avesse sposato un ricco signore siciliano dal nome buffo: Pippo. Non era vero. Non solo non lo aveva sposato, per il semplice fatto che lui era già sposato, ma non era nemmeno ricco. Era un povero cristo che aveva avuto la sfortuna di trovare sulla sua strada quell'arpia di mia zia Concetta.

Ricordo benissimo l'unica volta che vidi Pippo; fu in occasione di uno dei miei viaggi estivi in Italia. Mia madre voleva ogni anno andare a trovare i suoi fratelli e la mamma a Palmanova, però quell'anno mio padre ci impose di andare prima a Palermo a salutare sua sorella Concetta, che non era più tornata ad Asmara, e dopo saremmo potuti andare a Palmanova; così, una volta sbarcati a Napoli, prendemmo il treno per la Sicilia.

Avevo già fatto tante volte quella traversata avanti e indietro, ma quella volta rimase memorabile per la sorpresa che avremmo trovato una volta arrivati a Palermo.

Eravamo partiti quasi tre settimane prima dal porto di Massawa; mio padre ci aveva accompagnato con la sua Fiat Topolino che aveva caricato di borse e valigie, alcune anche sul tetto, assicurandole con un grosso spago, in modo che non cadessero durante il tragitto da Asmara a Massawa, poco più di cento chilometri di strada, con curve a gomito e tornanti senza la protezione laterale verso i burroni, che portava dagli oltre duemila metri di altitudine fino al mare.

Non era la prima volta che salivo su una nave, anche se non si poteva considerarla tale, ma un vecchio e decrepito piroscafo, appartenuto alla Croce Rossa e utilizzato durante la guerra. Nel 1947 era stato convertito per il trasporto passeggeri e sulla prua si leggeva la scritta in caratteri cubitali: DIANA. Successivamente anche un altro piroscafo, gemello a questo, fu destinato al trasporto passeggeri da Massawa a Napoli: il Tripolitania.

Mio padre, a differenza delle altre persone che restavano sulla banchina, aspettando che la nave si staccasse dal molo per salutare un'ultima volta i loro congiunti, parenti o amici, che di lì a poco sarebbero partiti per l'Italia, attese solo che salissimo la scaletta posta lateralmente al piroscafo e ci salutò con un cenno della mano, per poi rimontare, in tutta fretta, sulla sua Topolino e percorrere velocemente il breve tratto di strada asfaltata dalla banchina al cancello di uscita del porto.

Non erano previste cabine di prima o seconda classe, ma semplicemente camerate separate per le donne e per gli uomini, ognuna con dieci letti a castello; i bambini fino ad una certa età potevano dormire in quelle destinate alle donne. Trovammo posto in una camerata già occupata da due signore con i rispettivi figli che avevano all'incirca la mia età e con uno di loro feci subito amicizia; si chiamava Gianni e aveva un anno più di me e sapeva suonare molto bene la fisarmonica. La traversata durava complessivamente un paio di settimane, a volte di più, compresa una sosta a Port Said e una a Malta e per tutto il tempo giocammo a rincorrerci sul ponte di legno, che chiudeva la stiva dove erano stati caricati a Massawa dei sacchi di granaglie varie, oppure sulle scalette che portavano dalla poppa alla prua del piroscafo, dove spesso rimanevamo seduti a guardare la punta che tagliava il mare piatto durante la traversata del Mar Rosso, subito dopo aver superato lo stretto di Suez.

Ricordo che mio zio Pippo venne a prenderci alla stazione; aveva un cappello grigio tipo Borsalino, con una banda scura tutt'intorno alla base esterna della cupola. Era vestito di grigio chiaro, con la cravatta nera. Ci aspettava al binario con le mani incrociate sul davanti, tronfio nella sua giacca a doppiopetto. Appena scesi dal treno aveva voluto offrirci per forza un gelato in un bar del centro di Palermo, all'angolo di Via Vittorio Emanuele, forse per dar tempo alla presunta moglie, nonché mia zia, di sistemare le ultime cose prima del nostro arrivo. Ci aveva fatto accomodare all'aperto, mentre lui era entrato nel bar per ordinare le consumazioni: un caffè per lui, un cappuccino per mia madre e un cono gelato per me. Quasi tutti i tavoli vicino al nostro erano occupati solo da uomini che bevevano un liquore bianco dall'intenso profumo di anice. Non c'erano donne, ad eccezione di mia madre. Era bionda e anche bella. Tutti la guardavano con un misto di curiosità e di disprezzo. Curiosità per quei capelli biondo paglia, non certo comuni nell'isola a quel tempo, che ricadevano sul vestito di seta blu con la gonna larga e plissettata, come voleva la moda degli anni Cinquanta, e disprezzo per aver osato fare una cosa riservata solo ai maschi: sedersi al tavolo di un bar.

Lei e zio Pippo chiacchieravano, parlavano di tutto e di niente, si raccontavano dei bei momenti vissuti ad Asmara e che ognuno di loro faceva finta di ricordare come indimenticabili, nonostante le penurie e le pesanti difficoltà economiche del dopo guerra. Io restavo a guardare quegli uomini, vestiti tutti di grigio scuro e con quello strano cappello in testa che chiamavano coppola e pensavo al lungo viaggio che avevamo dovuto affrontare per arrivare a Palermo.

Dovevo fare la pipì e diventai impaziente, ma mio zio disse che non era il caso di usare il bagno del bar e che avrei potuto farla appena arrivati a casa, visto che il quartiere della Vucciria, dove abitavano, distava dal bar solo cinque minuti a piedi. Pagò in fretta, aiutò mia madre ad alzarsi, da vero gentiluomo, e ci avviammo verso le stradine, molte ancora in terra battuta, dove vivevano i miei zii.

Restai di stucco nel vedere lo squallido vicolo dove abitavano. Via Argenteria era una strada stretta e parzialmente asfaltata, con case piccole di due o tre piani, una di fronte all'altra, e minuscole finestre di fianco a porte che davano direttamente sulla strada senza marciapiedi.

I panni, stesi su corde fissate alla finestra di ogni costruzione e allungate fino alla finestra della casa di fronte, oscuravano in parte la vista dello squallido quartiere di Vucciria nel centro di Palermo, meta solo di curiosi desiderosi di conoscere la parte vecchia e decrepita della città, in netto contrasto con la raffinatezza della vicina via Vittorio Emanuele, a cinque minuti di strada da casa dei miei zii. Vucciria era anche conosciuta per il cibo da strada e diverse volte mio zio Pippo, goloso della cucina siciliana, mi aveva portato a mangiare uno di quei panini ripieni di pezzetti di carne scura e oleosa che i venditori, dietro i loro panchetti di legno improvvisati, con sopra un fornello a gas sempre acceso, chiamavano, anzi, urlavano " p"ani câ meusa" (pane con la milza).

Per arrivare a casa avevamo attraversato piazza dei Quattro Canti, così chiamata perché dai quattro angoli presenti in questa piazza si aprono quattro "mandamenti", i quartieri storici di Palermo, ciascuno protetto da una delle sante palermitane. Era il punto di incontro e dello struscio, soprattutto la domenica mattina, delle famiglie palermitane che amavano passeggiare tra le imponenti facciate barocche dei palazzi, e lungo Via Vittorio Emanuele, dove c'erano i negozi più belli e costosi della città, i bar di lusso e molte pasticcerie. Prima di rientrare a casa, quando il sole era ormai a picco sulla città, i Siciliani non mancavano mai di comprare un cabaret di cannoli e paste di mandorla e pistacchio per il pranzo domenicale, dove era riunita la famiglia al completo.

Succedeva anche nella nostra famiglia ad Asmara quando, ogni domenica, mia nonna paterna pretendeva che fossimo tutti riuniti intorno al tavolo per il pranzo. Cucinava lei, sempre e solo pietanze della cucina siciliana, e non voleva avere nessuno intorno ai fornelli. Dopo aver mangiato, i miei cugini ed io andavamo nel giardino circondato da fiori di lantana a giocare con la fionda o con la cerbottana e i miei zii rimanevano seduti al tavolo da pranzo a bere dell'anice puro o allungato con dell'acqua.

Dovetti subire i soliti abbracci e baci sulle guance, scambiati davanti alla porta, e poi mia zia Concetta ci fece accomodare intorno a un tavolo posto in mezzo all'unica grande stanza circondata da tende di colore indefinito, mentre zio Pippo si occupava di sistemare le valigie vicino al letto che era stato preparato per mia madre e per me.

Per entrare in casa di mia zia Concetta bisognava salire un gradino di mattoni che portava nel monolocale al cui interno, a una distanza di circa un paio di metri dalle pareti, c'erano tre tende di tessuto leggero di un colore tendente al verde. Le tende separavano altrettanti "locali", come pareti di stanze mai esistite. Dietro ad ogni tenda era nascosto qualcosa; cosa mai c'era dietro quei lunghi teli, che l'aria proveniente dalla porta faceva svolazzare, ma non abbastanza grandi da evitare che i curiosi vedessero ciò che nascondevano? Lo scoprii ben presto e quell'immagine non sarei stato più capace di cancellarla dalla mia mente.

Mia zia cominciò a fare domande sulla famiglia, su come era cambiata la vita ad Asmara durante quei cinque anni dal suo rientro definitivo a Palermo. Io mi torcevo e stavo per farmela addosso. Finalmente Pippo si ricordò della mia necessità di fare pipì e, afferrandomi per una mano, mi portò davanti alla prima tenda, vicino alla porta d'ingresso. La scostò appena e mi fece entrare, raccomandandomi di usare la brocca di rame posata lì in terra per versare l'acqua nello scarico. Rimasi in piedi davanti a quel buco scavato nel pavimento, con vicino la brocca di rame e un chiodo attaccato al muro, da dove pendevano dei pezzi di giornale. Sentivo chiaramente la voce di mia madre e degli zii dietro quella precaria protezione. Presi coraggio e, immaginando di non essere sentito, riuscii finalmente a fare pipì, già con il pensiero rivolto a quello che sarebbe successo in seguito, dato che dovevamo fermarci in quella casa per altri dieci giorni e, prima o poi, avrei avuto bisogno di usare quel bagno anche per le altre necessità fisiologiche. Inorridii al pensiero e, obbedendo a zio Pippo, versai tutta l'acqua contenuta nella brocca nel buco e ritornai nella stanza.

Mia zia si era nel frattempo allontanata dal tavolo, pur continuando a parlare con mia madre dei bei tempi passati e interrompendo Pippo ogni volta che questi cercava di partecipare al discorso. Ora era davanti a un grande lavandino di marmo che serviva, oltre che per sciacquare i piatti e far di bucato, per lavarsi la faccia e le ascelle; insomma era un lavandino multiuso e me ne accorsi la mattina successiva e quelle che seguirono. Stava lavando piatti e bicchieri lasciati a mollo nell'acqua, probabilmente dalla sera prima. Aveva anche preparato la colazione a base di caffè e latte e qualche biscotto, di quelli che si comprano sciolti in panetteria. Sgomberò il ripiano vicino al lavandino dalle pentole, posate e altre suppellettili e le ripose sullo scaffale sistemato sopra il rubinetto dell'acqua, anche questo coperto da una tenda dello stesso colore delle altre presenti nel monolocale. Anche il lavandino e il ripiano erano nascosti da una tenda scorrevole lunga dal soffitto fino al pavimento, per potersi lavare in completa libertà senza essere visti; c'era anche una tinozza di alluminio, appoggiata su uno sgabello di legno, per l'igiene intima e che durante il giorno veniva nascosta sotto al letto.

Ogni mattina la prima ad utilizzare questa specie di bagno improvvisato era mia madre; poi toccava a me, a mia zia e, infine, mentre noi eravamo seduti sull'uscio con la porta semichiusa e assaporavamo il caldo sole mattutino di Palermo, a Pippo. Lui non voleva alcuna presenza in casa durante le sue abluzioni, devo dire alquanto rumorose, visto le sentivamo distintamente, nonostante che la porta d'ingresso fosse accostata

Non ricordo quello che mangiammo in quei giorni di caldo e afa, ma sicuramente nulla che valesse la pena di ricordare, visto che mia zia non amava cucinare e, il più delle volte, chiedeva al marito di andare a comperare qualche arancina o un po' di milza e del pane da un venditore ambulante che urlava all'angolo della stradina, in una lingua che sembrava il canto di un muezzin dal minareto di una moschea. Ricordo molto bene, invece, il momento di coricarci; era qualcosa di drammatico e di comico insieme. Innanzitutto c'era il rito del bagno, se così si può chiamare il buco sul pavimento nascosto dalla tenda. I primi a usarlo, come il mattino appena svegli, eravamo io e mia madre, in quanto ospiti; successivamente mia zia e infine Pippo, che aveva il compito di gettare l'acqua contenuta nella brocca di rame sull'urina versata da tutti noi. Poi iniziavamo a svestirci, nascosti appena dall'altra tenda che divideva il letto dei miei zii dalle nostre brande, prese probabilmente a prestito da amici e sistemate in quell'angolo in occasione della nostra visita. Lo spazio a nostra disposizione era molto esiguo e la tenda continuava a spostarsi ad ogni movimento di mia madre, lasciandomi intravedere il culone di mia zia e il petto pelosissimo di mio zio, avvolto da una canottiera a costine di colore grigio.

Se per caso non fossi riuscito ad addormentarmi subito, avrei passato la notte praticamente ad occhi aperti, dato che i rumori del sonno iniziavano a rimbalzare sulle pareti solo dopo pochi minuti dall'augurio della buonanotte, che veniva pronunciato all'unisono, mentre Pippo era incaricato a spegnere la luce da una peretta che pendeva dal soffitto in mezzo alla sala. Russavano tutti rumorosamente e anche altri rumori provenivano dal letto dei miei zii, rumori per i quali Pippo ogni mattina, pieno di vergogna, chiedeva scusa a mia madre, dicendole che dipendeva dallacoliteche aveva contratto durante la prigionia in Africa.

Non ne potevo più di quelle notti passate a guardare il soffitto, di quel lavarsi sommariamente nel lavandino e nella tinozza, di quell'odore di sudore e di cibo che impregnava le tende, delle passeggiate senza meta con la mano stretta da quella di mio zio che temeva potessi essere investito da qualche carrozza o da una di quelle automobili tutte nere e piene di polvere. Non ne potevo più di tutto e così supplicai mia madre di accorciare il periodo di dieci giorni che avevamo deciso di dedicare alla visita degli zii di Palermo e di andarcene al nord, in Friuli, dai suoi fratelli. Così, dopo solo quattro o cinque giorni, mia madre, che sicuramente ne aveva abbastanza anche lei di quello squallore, raccontò non so quale bugia, collegata alla salute di non so quale suo lontano parente, e percorremmo all'inverso il percorso fatto a piedi all'arrivo, sempre accompagnati da Pippo che non sembrava poi così triste di dover trascinare, con qualche giorno di anticipo sul programma, le nostre valigie lungo la strada che ci separava dalla stazione di Palermo. Ci volle una buona mezz'ora per arrivare al binario da dove avremmo dovuto prendere il treno per Roma, che ancora non era al binario indicato sul tabellone delle partenze e degli arrivi. Erano le cinque di sera e sarebbe dovuto partire dopo circa un'ora, sempre se in orario. Come all'andata, il viaggio era molto lungo e snervante; più di dodici ore per percorrere poco meno di mille chilometri, compresa la tratta di mare sullo stretto da Messina a Villa San Giovanni. La tratta marittima veniva effettuata, rimanendo sul treno, da due navi varate poco prima della mia nascita e che erano già fatiscenti e sporche.

Sento ancora nel naso l'odore di grasso bruciato e del fumo di gasolio sprigionato dalla sala macchine al momento di salpare, così simile a quello che era rimasto all'interno delle camerate e della sala mensa del piroscafo Diana durante tutto il viaggio da Massawa a Napoli.

Palmanova

Il viaggio in treno fino a Roma, per la scomodità dei sedili e per il caldo, fu interminabile e stancante. Non riuscivo a dormire appoggiato allo schienale e avrei voluto sdraiarmi accanto a mia madre, ma lo scompartimento era completamente pieno, come tutti gli altri di quel vagone di II classe. Il gabinetto di destra del nostro vagone era stato chiuso per un guasto ed era utilizzabile solo quello di sinistra, vicino al portellone di uscita del treno. Il fetore arrivava fino al nostro scompartimento ed eravamo costretti a tenere la pesante porta scorrevole sempre chiusa, nonostante il caldo asfissiante.

Arrivati a Roma prendemmo una camera doppia per un giorno in una pensione vicino alla stazione Termini. Avevamo voglia di cambiarci e di lavare via di dosso, non solo la sporcizia accumulata sui vestiti e sulle mani durante quel viaggio impossibile, ma anche il ricordo di quei pochi giorni trascorsi nel tugurio di mia zia Concetta, senza poterci fare una doccia o un bagno.

Il mattino successivo facemmo colazione nel bar della stazione e, con molto anticipo, salimmo sul treno Roma-Trieste che fermava, dopo un viaggio di almeno otto ore, alla stazione di Cervignano.

Non c'era nessuno nel nostro scompartimento e così lasciammo il finestrino abbassato per fare entrare l'aria fresca del mattino che passava tra le tende pesanti e impregnate di fumo.

Quando il treno partì, mia madre si appoggiò al poggiatesta del sedile di finta pelle color marrone scuro e cominciò a sonnecchiare, senza però riuscire ad addormentarsi. Allora cercò la Settimana Enigmistica, acquistata alla stazione di Palermo e non ancora aperta, ed iniziò a risolvere qualche cruciverba. Io restavo affacciato al finestrino e mi facevo investire da quel getto forte di aria che mi tappava le narici e mi faceva socchiudere gli occhi. Era una sensazione molto intensa, di libertà, la stessa che avrei provato molti anni dopo, ormai ventenne, guidando la mia prima auto: un'Alfa Romeo 2600 spider di colore giallo. A dire il vero era di mio padre, ma me la lasciava guidare nei periodi in cui rimaneva a lavorare nella piantagione di banane che aveva preso in concessione una decina di anni prima.

Mia madre, alla fine, si era addormentata e io ne approfittai per sporgere la testa ancor di più. Il vento mi bloccava il respiro, ma non volevo interrompere la sensazione che mi procurava. I paesi scorrevano via veloci davanti ai miei occhi e la campagna era immersa in un colore dorato. Quando il treno si piegava su un fianco per affrontare una curva, potevo vedere tutti i vagoni davanti al mio che sfrecciavano veloci, procurando il tipico suono al passaggio delle grandi ruote di ferro sulle giunture dei binari: dadàn dadàn... dadàn dadàn.

Si era fatto mezzogiorno e si soffocava per il caldo; l'estate era nell'aria con il suo odore intenso di polvere ed erba seccata dal sole. Tenevo un braccio fuori dal finestrino e giocavo a farlo volare come un aereo che si alza e si abbassa nel cielo, a seconda di come inclinavo il palmo aperto della mano, procurando all'interno dello scompartimento un suono sordo e fastidioso che svegliò mia madre. Il panorama era cambiato ad ogni passaggio di regione: desolato ed arido in Sicilia e dopo essere sbarcati dal ferry boat a Villa San Giovanni in Calabria, assolato e pieno di colori e di profumo di mare prima di arrivare a Napoli; infine, pianeggiante e ordinato nell'attraversare la campagna emiliana.

Dopo un tempo che mi era sembrato interminabile, alla fine eravamo in Friuli. Avevo riconosciuto gli alberi di gelso che fiancheggiavano i canali d'irrigazione; erano carichi di foglie e probabilmente anche dei dolci frutti bianchi e viola. Ci fermammo alla stazione di Latisana e sul vagone rimase, oltre a noi, solo qualche altro passeggero. Mancava ormai poco per arrivare a Cervignano e mia madre, svegliata dalle grida del capotreno che invitava a salire sul treno in partenza per Trieste, cominciò a tirare giù le pesanti valigie per sistemarle lungo il corridoio della carrozza. Il treno ripartì cigolando e io mi misi seduto sullo strapuntino vicino al bagno; non vedevo l'ora di scendere e di riabbracciare zii e cugini, soprattutto Federico, il più grande, che adoravo e che cercavo di imitare, spesso senza riuscirci. Ci sarebbe stato anche lui ad aspettarci alla stazione? Aveva dieci anni più di me ed era completamente il mio opposto: serio, equilibrato, posato nei modi e nel parlare, mentre io, al contrario, già esprimevo quello che sarebbe stato il mio carattere: agivo sempre istintivamente e non riuscivo a prendere nulla sul serio. Inoltre ero sboccato, irascibile, sempre pronto a venire alle mani. Desideravo tanto rivedere anche l'altro mio cugino, Pietro, più giovane di me di qualche anno, taciturno e introverso. Ogni volta che facevamo un gioco si metteva a piangere per un nonnulla, facendomi sgridare da tutti, con la scusa che era il più piccolo, ma, in effetti, era solo il più viziato. Anche a lui ero molto affezionato, nonostante qualche volta lo avrei strozzato perché tutti prendevano sempre le sue difese, quando tra noi avveniva una lite o semplicemente un piccolo screzio durante il gioco. Giocavamo spesso con il figlio degli inquilini di un appartamento che i miei zii avevano dato in affitto, tanti anni prima, ad una coppia di venditori ambulanti. Avevano due figli: il più piccolo era Berto, della mia età, che rimaneva quasi sempre solo a casa, e il fratello, molto più grande di lui, che accompagnava i genitori in giro per i vari mercati all'aperto vicino a Palmanova.

Pietro era molto attaccato a Berto, anche se non lo faceva vedere se io ero presente e, quando, invece, erano da soli e si immergevano nei loro giochi nel grande cortile sottostante l'appartamento dove viveva mia nonna, smetteva di essere introverso e - mi era stato detto dallo stesso Berto - prendeva spesso lui l'iniziativa di sparare per primo ai soldatini di piombo. I sassolini venivano usati come proiettili contro gli indiani o il reggimento di nordisti, disposti tra ciuffi di erba o nascosti dietro i mattoni delle aiuole. Dopo un sorteggio, forse un po' troppo di parte, visto che Berto pretendeva sempre di farlo lui in quanto "più grande", cominciava la battaglia.

Anche quella di mia madre era una famiglia numerosa e per questo motivo mio nonno, quando con mia nonna si erano trasferiti da Trani al nord, aveva comprato una casa così grande, in uno dei tre borghi principali di Palmanova, quasi all'angolo della piazza ottagonale riportata in molti libri di architettura e di storia. Desiderava che i figli vivessero un giorno tutti sotto lo stesso tetto.

Era stato un convento, trasformato poi in una palazzina residenziale. Ora al pianterreno c'erano tre negozi e, sui tre piani sovrastanti, gli appartamenti dei miei zii e quello piccolo dove vivevano i genitori di Berto al primo, mentre al secondo altri due appartamenti che avevano affittato a degli stranieri; per ultimo una enorme mansarda che ricopriva tutta la superficie dell'immobile.

Quell'anno, anche per rivedere mia madre dopo tanto tempo, c'erano tutti, anche i genitori di Pietro che vivevano a Torino e gli altri miei zii che si erano trasferiti in Liguria con il figlio Marco, un altro mio cugino che non avevo quasi mai frequentato, dato che aveva una ventina d'anni più di me.

Vidi il gruppo sul marciapiedi sotto la pensilina della stazione di Cervignano, mentre il treno rallentava e si fermava, con un lungo stridio dei freni. Riuscii a sentire l'altoparlante che annunciava l'arrivo in stazione: "stazione di Cervignano - allontanarsi dai binari - treno in arrivo sul primo binario da Latisana - prossima ed ultima stazione Trieste".

Ero felice di rivederli e agitavo il braccio attraverso il piccolo finestrino dello sportello del treno, chiamandoli tutti per nome.

L'autobus ci scaricò davanti alla piazza centrale di Palmanova, vicino all'edicola dei giornali e a pochi passi dall'entrata della casa di famiglia. Già dalla lunga scalinata che portava agli appartamenti al primo piano potevo sentire quell'odore misto di mobili antichi e di cera laboriosamente stesa sul pavimento di legno di pino; tutto mi era così familiare.

Improvvisamente mi dimenticai di Asmara e sperai che non ci saremmo più tornati.

Era bello ritrovarmi in quella casa che mi rendeva sempre sereno e spensierato, immerso nei giochi nel cortile con i sassolini bianchi che usavamo nelle battaglie con i soldatini. Ne avevo di tutti i tipi: le giubbe rosse canadesi, a cavallo e appiedate, con la giacca rosso fuoco, il cappello color nocciola e le bande nere sui pantaloni. Il sesto cavalleggeri e i fanti dei nordisti americani con le loro divise blu scuro e il berretto dalla visiera schiacciata sulla testa. Anche se non li utilizzavo quasi mai, avevo anche i soldatini americani del sud, nelle loro tristi giacche grigio chiaro. Ma quelli per i quali andavo matto e che mi facevo spesso regalare da mia nonna, era gli indiani, i miei soldatini preferiti. C'era Toro Seduto con la corona di piume bianche e nere e le braccia incrociate sul petto e poi i Cherokees, alcuni su cavalli pezzati, altri col tomahawk alzato, pronto a colpire, altri sdraiati per terra con una gamba piegata, intenti a strisciare per terra, sgattaiolando tra i cespugli per non farsi vedere, nell'intento di avvicinarsi il più possibile ai Visi Pallidi, per poi prenderli di sprovvista. I cavalli degli indiani non erano tutti dei pezzati; ne avevo anche di bianchi e di neri, a volte con delle macchie color marrone, mentre quelli dell'esercito del nord erano prevalentemente neri e quelli delle giubbe rosse tutti marrone. Assieme a Pietro e a Berto, l'unico inquilino della mia età che abitava nella grande casa di mia nonna, sistemavamo i soldatini dietro i cespugli di erba, nascosti tra i sassi delle aiuole e sui rami delle piantine di mia zia, la mamma di Federico; quando tutti erano al loro posto, con le cavallerie pronte ad avanzare, iniziava la sassaiola con i minuscoli ciottoli del cortile. Berto ed io riuscivamo a colpire molti più soldatini di Pietro e, sistematicamente, finiva che lui si nascondesse a piangere vicino alla legnaia, dove era conservata la legna per i gelidi inverni friulani. Quando cominciava a far freddo, la mattina presto mia zia Tina raccoglieva dei grossi ciocchi stagionati per alimentare la grande stufa della sala da pranzo che serviva a riscaldare tutto l'appartamento, compresa la camera da letto di mia nonna e quella dove dormivano mio zio Beppi e mia zia Tina.

Il papà e la mamma di Federico avevano un piccolo appartamento tutto per loro dove il salotto aveva una porta sempre chiusa che comunicava con la camera di mia nonna. Mia zia Lucia occupava una sola stanza con bagno nel corridoio che portava all'appartamento dove viveva la famiglia di Berto, mentre suo marito, mio zio Umberto, lo avevano sistemato in una specie di ripostiglio molto angusto al secondo piano; a mala pena c'era entrato un piccolo letto e una scrivania. Era stato un generale durante la seconda guerra mondiale e aveva molte foto di quegli anni, che mi mostrava quando andavo di nascosto a trovarlo, dove posava orgogliosamente vicino a Gabriele D'Annunzio o ad altri personaggi famosi dell'epoca fascista. Aveva contratto la sifilide e, al ritorno dalla guerra, mia zia Lucia non aveva più voluto rivolgergli la parola; capitava che si unisse a noi per il pranzo o la cena, ma di solito gli portavano un vassoio in camera e rimaneva nella sua tana anche per giorni interi, senza mai scendere. A volte, soprattutto la domenica quando tutti andavano a messa e la casa rimaneva vuota e nel più completo silenzio, si vestiva di tutto punto – era sempre stato molto elegante e raffinato – e usciva per andare a bere un bicchiere di vino al bar dei reduci. Lo ricordo vestito di bianco immacolato con le scarpe dello stesso colore, senza una sola macchia di sporco o di polvere; in testa un panama, dall'aspetto alquanto vissuto, ma che gli stava a pennello. Aveva un gran fascino e spesso rimanevo ad ascoltare le sue storie avventurose, forse vere o solo frutto della sua incredibile fantasia e raccontate con una così vasta serie di particolari, che mi facevano immedesimare in quei suoi trascorsi di vita, anche per giorni e giorni. Mi ero molto simpatico e lo ricordavo con grande affetto.

Berto lanciava i sassolini con una precisione incredibile, tanto da farmi pensare che si allenasse quando noi non c'eravamo. E poi sapeva imitare perfettamente lo sparo del winchester con il tipico sibilo finale. Io cercavo di imitarlo, ma inutilmente, così preferivo passare all'attacco con gli indiani imitando il loro grido di guerra e lanciando tre o quattro sassi contemporaneamente. Così facevo arrabbiare Pietro che si trovava decimato dei suoi soldatini in breve tempo.

Ogni mattina, di buon'ora, zio Beppi preparava la colazione per me e per Pietro: una tazza enorme di latte bollente con caffè solubile di orzo, tanto zucchero e pezzi di pane che assorbivano il latte; il tutto diventava un abominevole pappone poco invitante, ma dolcissimo e sicuramente molto nutriente.

Appena finito, prendevamo la corriera per Grado assieme a mia madre e alla mamma di Pietro e, dopo meno di un'ora, eravamo già sdraiati sulla spiaggia libera vicino al faro. Fino a tarda mattinata la bassa marea si estendeva per centinaia di metri ed era impossibile farsi il bagno senza allontanarci troppo dalla spiaggia, così aspettavamo sotto il sole che la marea salisse; nel frattempo costruivamo castelli di sabbia, con canali scavati sotto le mura di cinta, che si riempivano subito d'acqua all'interno. L'alta marea coincideva con l'ora del pranzo e ogni volta eravamo costretti a stare nell'acqua solo una mezz'oretta, perché i panini con la solita frittata o con qualche fetta di prosciutto cotto che zio Beppi aveva preparato all'alba per tutti noi, dovevano essere scartati e consumati all'una in punto, mai più tardi. Così nel pomeriggio, solo dopo le fatidiche tre ore dal pranzo, Pietro ed io avevamo il permesso di fare nuovamente il bagno.

La nostra amicizia continuò per tanti anni, e si rafforzò durante il periodo in cui mia madre si trasferì a Torino, mentre ero in collegio in Svizzera; aveva preso in affitto l'appartamento adiacente a quello di sua sorella. In quel periodo Pietro andava ancora alle medie, in una scuola a pochi metri da casa, e le vacanze estive le passavamo sempre insieme a Grado, dove i suoi genitori prenotavano ogni anno due stanze in una piccola pensione economica davanti alla spiaggia libera, teatro dei giochi della nostra fanciullezza.

Ho la testa confusa, come se fossi uscito da un lungo sonno pieno di incubi. Faccio fatica ad aprire gli occhi, ma sento di non essere solo e riesco a percepire la presenza del vecchio ai piedi del letto. Quanto tempo è passato? Una folata di vento leggero mi accarezza e nuovamente arriva nelle mie narici il profumo di lantana. Lo sento entrare anche nel petto, nelle vene. Il vecchio dalla barba bianca è rimasto con me ed è sempre lì che mi guarda. Riesco lentamente ad aprire gli occhi e incrocio il suo sguardo sereno e il suo sorriso.

"Ti sei addormentato" mi dice venendo verso di me e appoggiando la sua mano sulla mia.

"Ci sono stati momenti in cui hai addirittura riso", continua, "e questo mi ha reso felice".

I momenti appena rivissuti nel sogno o nel ricordo riaffiorano ed ho voglia di riprendermi quei momenti. Richiudo gli occhi, mentre lui mi stringe la mano e, avvicinando la lunga barba bianca al mio viso, mi sussurra:

"continua; ti fa bene rivivere il passato"

Asmara prima parte

Quell'estate passò in fretta e mi sembrò impossibile che le cinque settimane di vacanza fossero ormai alla fine; pochi giorni ancora e poi avremmo preso il treno diretto a Napoli per imbarcarci sul piroscafo Diana o forse sul Tripolitania che, dopo uno scalo a Malta e a Port Said, ci avrebbe riportato, dopo un paio di settimane di navigazione – salvo eventuali avarie - alla triste realtà africana, giusto in tempo per l'inizio del nuovo anno scolastico.

Solo zio Beppi ci accompagnò in stazione con l'unico taxi di Palmanova. Erano da poco passate le sei del mattino e rimase a guardarci e a salutarci con la mano fino a quando il treno non prese velocità.

Avevo il viso triste, incollato al finestrino, dove le gocce della prima pioggia di fine estate si rincorrevano, fino a formare un rigagnolo che velocemente scompariva nel nulla. Guardavo i filari di gelso, ormai quasi spogli, che scorrevano veloci dal finestrino del nostro scompartimento. Poi iniziai a vedere le distese dei campi della pianura Padana, uno spettacolo così monotono e noioso che mi fece addormentare. Diverse ore mi svegliò il caos di Roma; il treno rimase fermo nella stazione Termini per far salire i viaggiatori diretti fino a Messina. Ripartì in orario e, dopo più di dieci ore di viaggio, cominciai a vedere in lontananza il traffico di automobili di Napoli con il loro frastuono incessante.

Quella volta non volli nemmeno andare a comprare il pane nel negozietto vicino a Piazza Municipio, poco lontano dal castello del Maschio Angioino, cosa che facevamo sempre, soprattutto all'arrivo da Massawa, appena sbarcati al porto di Napoli. In attesa del facchino e di un taxi per farci portare al porto, mi misi seduto su una panchina e cominciai a sfogliare Topolino, l'ultimo regalo di mio zio prima di salire sul treno a Cervignano. Aprii qualche pagina a caso, ma ero distratto dai ricordi della vacanza appena finita; poco dopo vedemmo arrivare il taxi. Mi alzai per aiutare mia madre e l'autista a caricare le nostre valigie su una Fiat 600 multipla verde con il tetto nero.

Arrivammo al porto in pochi minuti. Dovevamo aspettare più di quattro ore per l'imbarco sul piroscafo Diana, così lasciammo le valigie nel deposito bagagli del porto e accompagnai malvolentieri mia madre nel malfamato quartiere di Forcella a comprare una radio che andava di moda in quegli anni, con una stazione di onde medie, una di onde lunghe e ben tre stazioni di onde corte. A cosa le servisse quella radio, così grande rispetto alla piccola a transistor che usava di solito, non lo capivo. Mi madre mi disse che aveva molte stazioni, alcune trasmettevano addirittura una serie di programmi in inglese, secondo me inutili per lei che parlava solo l'italiano e, il più delle volte, preferiva esprimersi in un misto di veneto e friulano.

Aveva visto quella radio da una sua amica e ne era rimasta affascinata. Ci infilammo nei vicoli del quartiere e mia madre trovò subito su una bancarella quello che cercava. Cominciò a trattare sul prezzo per una radio Zenith, molto bella e pesante, con due antenne che, una volta distese, superavano il metro di altezza. Il tizio non voleva scendere di una sola lira, e con un forte accento napoletano spiegava a mia madre che quella non era una semplice radio; poteva anche sintonizzarsi sulla stazione della polizia. Mia madre rispondeva in friulano, però sembrava che si capissero alla perfezione. Dopo quasi un'ora di trattative, il venditore sembrò accettare in parte il prezzo proposto da mia madre e concordarono così una cifra che andava bene ad entrambi. Consegnò la grossa scatola di cartone, ancora sigillata, con incollata sopra la foto della radio Zenith e prendemmo un taxi per farci portare al porto. Mia madre non vedeva l'ora di imbarcarsi. Voleva aprire quel cartone e ascoltare la sua radio. L'imbarco fu puntale e, una volta sistemati i bagagli nella camerata con i letti a castello, si sedette sulla sua branda e cominciò ad aprire la scatola o lo scatolo, come l'aveva chiamato il ragazzo napoletano che gliela aveva venduta.

Non dimenticherò mai la sua espressione e quegli occhi spalancati che fissavano l'interno della confezione. Mi avvicinai a lei e guardai anch'io: c'era un pezzo di legno delle esatte dimensioni della radio e, fissato con del nastro adesivo, un mattone per aumentarne il peso.

Iniziò a piangere come una bambina, inveendo contro l'uomo che le aveva venduto legno e sassi al prezzo di una radio alla moda.

Mi sdraiai sulla branda di seconda classe di quel piroscafo rattoppato e fumante e cominciai a pensare che i meravigliosi giorni trascorsi con Pietro forse erano stati solo un sogno. Ad un tratto sentii della musica e mi accorsi che sulla fila dei letti a castello c'era anche Gianni, l'amico del viaggio di andata. Era intento a suonare in sordina La Cumparsita con la grossa fisarmonica che lo nascondeva quasi totalmente ai miei occhi. Era davvero bravo e quella musica mi rese ancora più triste. Vicino a lui c'era un altro ragazzino della nostra età che lo ascoltava estasiato.

Sentivo gli occhi riempirsi di lacrime e gli voltai le spalle per non farmi vedere, ma lui si accorse di me; lasciò la fisarmonica sulla branda e si avvicinò assieme al suo nuovo amico, che fu il primo a parlarmi.

"Sei triste per la partenza?", mi chiese.

"No" risposi "sono triste perché non mi va di tornare ad Asmara" e continuai: "vivi anche tu lì? Non ti ho mai visto prima." Tirai su con il naso e mi passai un braccio sulle guance per asciugare il pianto che non ero riuscito a trattenere.

"No, io e mia madre stiamo raggiungendo mio padre che lavora da qualche mese in una fabbrica di cotone ad Asmara. Non sono mai stato in Africa e la cosa mi emoziona tantissimo. È vero che ci sono gli animali feroci?"

Avevamo iniziato a chiacchierare come se ci conoscessimo da sempre.

"Io non li ho mai visti, se non al cinema", gli risposi, mentre Gianni era andato a riprendere la fisarmonica e si era seduto accanto a me.

Diventammo tre amici inseparabili e passammo ogni giorno della navigazione a correre e a nasconderci sul ponte della classe turistica, con mia madre che continuava a chiamarmi a gran voce, raccomandandomi di non sporgermi e di non andare assolutamente sulla punta della prua.

Con gli occhi persi a guardare gli spruzzi, mentre la nave affondava dolcemente in quel mare color della notte, mi tornò in mente mio padre e il primo viaggio che feci su quel piroscafo.

Nonostante avessi allora poco più di tre anni, lo ricordavo bene: la scaletta per imbarcarci, il ponte, le camerate, il rumore della sala macchine a poppa e l'odore di gasolio. Avevo però difficoltà a mettere a fuoco mio padre, anche se erano passati meno di tre mesi da quando l'avevo salutato al porto di Massawa.

Avevo effettivamente pochi ricordi di lui, soprattutto bei ricordi. Pur sforzandomi, non riuscivo a rivederlo sorridente vicino a me o a mia madre, se non quelle poche volte che mi svegliavo presto la domenica mattina e lo vedevo sdraiato a dormire vicino a lei, ma quelle vaghe reminiscenze di un recente passato erano forse solo immaginarie. Rivedevo la palazzina vicino alla stazione ferroviaria di Asmara, dove vivevano anche mia nonna e mia zia Rosetta. Avevamo un piccolo appartamento al piano terra, con la cucina a destra dell'entrata e a sinistra un salottino con due poltrone e un tavolino di vetro con la base di ferro brunito. A lato delle poltrone e di fianco alla finestra, un tavolo rettangolare, con poche sedie, e un mobile a specchio con i cassetti. Mi rivedevo seduto su quel mobile con in mano un carro armato di latta che sparava pallini di ferro. Era Natale e mi avevano fatto trovare sotto l'albero quel gioco così tanto desiderato. Avevo quattro o forse cinque anni e i ricordi di quella casa erano quasi tutti sereni e, tra questi, il riposo pomeridiano della domenica nella camera da letto dove dormivano i miei genitori e dove era sistemato il mio lettino con le sbarre di legno, il caffellatte al risveglio con fette di pane imburrate e spolverate di zucchero e poi il cinema. Andavamo al cinema quasi tutte le domeniche, percorrendo a piedi la distanza da dove abitavamo al centro di Asmara. Il cinema Impero, il più vicino a casa nostra, aveva in programma film recenti in lingua italiana, come gli altri due cinematografi che, se non ricordo male, si chiamano Odeon e Asmara. Ce n'era anche un terzo, molto piccolo, in una via laterale del corso principale, non lontano dal mercato delle stoffe, dove venivano proiettati film italiani molto vecchi e, a volte, anche indiani, che piacevano molto agli abitanti di quel quartiere. Quasi tutti i negozi che vendevano stoffe erano gestiti da indiani, che si erano integrati molto bene con la comunità italiana. I miei genitori lo chiamavano "pidocchietto", forse perché, dopo esserci stato a veder un film, ne uscivi carico di pidocchi.

Io camminavo al centro, con una mano in quella di mio padre e l'altra stretta da quella di mia madre, sempre preoccupata che potessi scappare in mezzo alla strada. Non c'erano molti soldi a quel tempo e mio padre lavorava come contabile per una compagnia aerea, la Sudan Airways, che aveva gli uffici in un grande negozio di fronte alla Cattedrale. Davanti, per attirare le persone, c'era un aeroplano di legno lungo quasi due metri dove lui mi faceva sedere quando passavamo a salutarlo assieme a mia madre. Anche se lui non era a diretto contatto con il pubblico per la vendita dei biglietti aerei, doveva indossare ugualmente la divisa color kaki di tipo militare e un cappello con visiera. Sembrava un pilota e la divisa gli conferiva autorità e anche un certo fascino.

Mia madre deperiva ogni giorno di più per la gelosia che la corrodeva dentro e fuori. Non sopportava di vederlo così raggiante quando eravamo in mezzo alla gente e odiava il fatto che, essendo più giovane di lei di sei anni, sembrasse ancora un ragazzo. Piaceva molto alle sue amiche o presunte tali, e quando si sentiva osservato o al centro dell'attenzione, era il momento in cui dava il meglio di sé, comportandosi da vero istrione, mentre a casa era taciturno e distaccato. Nemmeno a me rivolgeva spesso la parola, anzi, il più delle volte mi allontanava urlandomi addosso che gli facevo volare i francobolli della sua collezione e che voleva starsene in pace dopo una giornata di duro lavoro. A dire la verità a me non sembrava tanto affaticato dal lavoro ma solo assente e scontroso.

I momenti veramente tristi iniziarono una sera al suo rientro dall'ufficio della compagnia aerea dove lavorava, stranamente molto prima di cena. Mia madre era stata tutto il giorno a piangere sul letto, dicendomi che aveva una colica e che voleva rimanere al buio aspettando che le passasse. Non aveva toccato cibo e non aveva preparato il pranzo e nemmeno la cena. Appena sentì la Topolino fermarsi davanti casa, corse in bagno a rinfrescarsi il viso e a ravvivarsi i capelli biondi e si fermò davanti alla porta aperta, aspettando che mio padre salisse i quattro gradini che separavano il nostro appartamento dal portone d'ingresso. Non lo fece nemmeno entrare; gli tirò in faccia un paio di mutande a pantaloncino bianche e urlò con tutto il fiato che aveva in gola che era stanca di lavargli la biancheria sporca del rossetto delle puttane che frequentava.

"Sei un porco, mi fai schifo", riuscì a balbettare nel convulso di pianto che non era più riuscita a trattenere.

Per tutta risposta lui le dette una spinta che la fece letteralmente volare contro l'angolo del muro ed entrò sbattendo violentemente la porta. Poi tornò indietro e si avventò su lei, ignorando la mia presenza e il terrore che si poteva leggere nei miei occhi increduli. Non avevo mai visto i miei genitori urlare in quel modo e dalla paura non riuscivo nemmeno più a parlare, a camminare, a correre da mia zia, che abitava al piano di sopra, per chiedere aiuto. Lui la percosse una volta, due volte, con la mano aperta che scendeva e colpiva con violenza la faccia di mia madre, le spalle, la testa e tutto ciò che trovava davanti.

"Mi hai rotto i coglioni con la tua gelosia. Non ti sopporto più"e continuava a picchiarla, senza mai fermarsi.

Dopo un tempo interminabile riuscii finalmente a muovermi e corsi verso mia madre che, accucciata per terra, cercava di difendersi e mi misi tra lei e lui, pregandoli di smettere, di fare pace, di non urlare più. Piangevo e urlavo la mia paura e la mia rabbia. Sì, paura di quell'uomo che non avevo mai conosciuto in circostanze come quella e rabbia per non riuscire a fermare le sue mani grandi che continuavano a colpire, ora anche me. Solo l'intervento di mio zio Antonio, che nel frattempo aveva sentito le urla ed era sceso di corsa, riuscì a fermare la furia di mio padre e a mettere fine a quei momenti di angoscia e di terrore che segnarono in modo indelebile la mia infanzia.

La vita insieme a mio padre non era più possibile e così ci trasferimmo a casa dei miei zii per qualche giorno. Poi mia nonna paterna intervenne per cercare di riappacificare i miei genitori e in parte ci riuscì, però ad una condizione imposta da mio padre: mia madre ed io quell'anno saremo dovuti partire prima per l'Italia. Mancava solo un mese a luglio, periodo in cui saremmo comunque andati a Palmanova dai suoi parenti. Al rientro, con calma e sicuramente con una maggiore serenità d'animo, la questione sarebbe stata affrontata da tutta la famiglia al completo, soprattutto per il mio bene.

Quella fu la mia prima partenza da Asmara e, quando

tornammo dopo tre mesi, trovammo le cose molto cambiate.

Mentre eravamo a Palmanova, a mio padre era stato offerto un lavoro più remunerativo da una ditta di spedizioni marittime, che aveva la sede centrale a Londra. Senza aspettare il ritorno di mia madre, aveva trovato un appartamento al terzo piano di un palazzo davanti al cinema Impero, sul corso principale di Asmara, che a lei comunque piacque, quando, al nostro rientro dall'Italia, ci fece la sorpresa di dirigersi verso il centro invece che in periferia e ci condusse nella nostra nuova casa. La prima cosa a cui pensai fu che la domenica sarebbe bastato attraversare la strada per andare al cinema. Purtroppo non andammo più insieme a guardare un film, perché spesso mio padre il sabato e domenica doveva assistere agli sbarchi nel porto di Massawa della merce spedita da tutta l'Europa e destinata ai Paesi del Corno d'Africa.

Cominciarono a entrare sempre più soldi, ma per me anche momenti sempre meno felici e spensierati.

Era riuscito anche a comprarsi un'altra autovettura, una Opel Kadett di colore giallo, e ora vestiva con abiti costosi e impeccabili, perlopiù doppiopetti con la giacca lunga e i pantaloni larghi a vita alta, come si usava all'epoca: eravamo alla fine degli anni 50. Ricordo i suoi capelli sempre impomatati e pettinati all'indietro, con un corto ciuffo di capelli neri sulla fronte. Quando usciva di casa la mattina, lasciava dietro di sé una scia di dopobarba dal profumo dolciastro e penetrante. La sera ritornava sempre più tardi e sempre più nervoso e irritabile. Spesso non mangiava neppure e, senza dire una parola a mia madre e a me, si dedicava al suo hobby filatelico; raccoglieva francobolli delle colonie inglesi e il suo desiderio era di poter avere un giorno la collezione completa. Stava ore ed ore a catalogare quei minuscoli pezzi di carta dentellati, confrontandoli con le foto di un libro e segnando dietro a matita l'anno, la tiratura e quant'altro trovava scritto sulle informazioni che forniva il Bolaffi, così si chiamava quel grosso volume pieno di foto e disegni di francobolli di tutto il mondo.

Ero assorto nei miei pensieri e non avevo sentito mia madre che mi chiamava. Nonostante il piroscafo non fosse così grande da perdermi, stava cercandomi da tutte le parti, persino nella sala macchine. Alla fine aveva capito che potevo essere solo in un posto che mi piaceva tanto: la prua della nave.

"Mi hai fatto spaventare", mi urlò addosso quando fu vicino a me e mi prese la mano; tremava di paura.

Si sedette e mi abbracciò forte.

Mancavano solo un paio di giorni all'arrivo a Massawa e il caldo era insopportabile. Non esisteva l'aria condizionata in quella carretta del mare, ma solo un paio di ventilatori rumorosi ancorati ai soffitti di acciaio della camerata e della sala mensa. Sul ponte avevano steso un enorme telo, fissato alla ringhiera del ponte comando e al tetto della sala macchine a poppa.

Questa volta c'era lui ad aspettarci sulla banchina del porto. Era in piedi sul molo, con una mano nella tasca dei pantaloni e l'altra lungo il fianco con la sigaretta stretta tra le dita, sempre ingiallite dalla nicotina. Quando mi vide accennò un saluto e, forse, chissà, anche un sorriso.Osservavo mio padre e mi rendevo conto della rabbia e dell'odio che provavo per lui e nello stesso tempo quanto fosse grande il bene che sentivo di volergli, nonostante tutto. Era un bell'uomo e avrei voluto assomigliargli da grande.

Poi guardai le lacrime che scendevano sulle guance di mia madre e la bilancia tornò a pendere dalla parte dell'odio, del rancore, dei ricordi tristi di quegli anni, così evitai di guardarlo mentre scendevo la scaletta appoggiata al fianco del piroscafo.

Il sanatorio

La sensazione del crescente benessere dei primi anni 60 si cominciava a percepire anche ad Asmara: nuovi negozi, strade asfaltate, nuove costruzioni, specialmente ville con giardini, uffici di rappresentanza di compagnie aeree straniere che avevano incrementato i loro voli da e per l'Europa e che, di lì a poco, avrebbero sostituito definitivamente i viaggi per mare su quelle carrette, le uniche due navi che ancora collegavano l'Eritrea con l'Italia, il Diana e il Tripolitania. Anche mio padre aveva fatto un gran salto di qualità; ora era vicedirettore della società inglese di trasporti dove lavorava e che aveva, nel frattempo, aperto uffici di rappresentanza in tutta l'Etiopia ed anche ad Aden, nello Yemen del Sud, dove lui si recava spesso, essendo stato nominato responsabile di quella filiale.

Anche i miei zii e mia nonna avevano voluto avvicinarsi al centro e così si erano trasferiti in una zona di Asmara non lontano da dove abitavamo noi e così avevano abbandonando tutti la vecchia costruzione a due piani vicino alla stazione, dove avevamo vissuto un tempo.

Il nostro appartamento al terzo piano sulla via principale di Asmara era a pochi passi dalla Cattedrale e a soli due isolati da dove mia cugina Nadette viveva con i genitori. Anche loro avevano trovato un appartamento al quarto piano di un palazzo di recente costruzione, abbastanza grande da poter usare una delle stanze per il lavoro di sarta di mia zia Rosetta, mentre il piccolo laboratorio da calzolaio, che mio zio aveva sistemato in un angolo nella casa vicino alla stazione, fu invece spostato in un negozietto a fianco del mercato coperto. Mia nonna, invece, aveva preferito una zona non troppo centrale, dove le case erano basse e circondate da giardini. La sua era una villetta con folte piante di buganvillea e alti cespugli di lantana.

Avrei dovuto iniziare la prima media e avevano deciso di iscrivermi al Collegio dei Fratelli de la Salle, dove era possibile il semiconvitto, così non sarei dovuto tornare a casa per il pranzo e costringere mia madre a cucinare, cosa che odiava fare, anche perché non ne era capace. Inoltre sarei stato seguito nello studio dai miei stessi insegnanti. Ogni pomeriggio, prima di tornare a casa a piedi, mi fermavo a giocare con gli amici della piazzetta. Non c'erano pericoli allora: le automobili erano sicuramente aumentate di numero rispetto a qualche anno prima, ma erano ancora poche e la gente si spostava principalmente in bicicletta.

Quella apparente serenità non durò molto.

Una sera mia madre mi costrinse ad accompagnarla, per una commissione, nonostante fosse ormai tardi. Era il periodo delle piogge e coincideva con l'autunno eritreo, quindi alle sei di sera era già buio. Attraversammo la strada e mia madre s'infilò in un risciò parcheggiato davanti al cinema Impero. Rimanemmo seduti all'interno di quella specie di taxi a tre ruote per più di mezzora, mentre lei continuava a fumare una sigaretta dopo l'altra. Il fumo usciva solo in parte dai due piccoli finestrini di plexiglas che ci separavano dall'autista eritreo. Era buio e le finestre di alcuni uffici nelle vicinanze erano ancora illuminate.

Restavamo seminascosti dalle palme da dattero e il tassista eritreo cominciava a spazientirsi e a chiedere a mia madre se aveva deciso dove andare. Alla fine lei gettò dal finestrino l'ennesima sigaretta fumata a metà e gli disse di partire e di dirigersi verso il mercato. Il rumore del Piaggio che si metteva in moto coincise con lo spegnersi di alcune luci degli uffici della bassa costruzione vicino a dove abitavamo e, non appena raggiungemmo la sede della ditta di trasporti dove lavorava mio padre, anche lì le luci delle finestre cominciarono a spegnersi una dopo l'altra. Il primo ad uscire fu il direttore: un immigrato israeliano che si chiamava Boris Truman e che, si vociferava, avesse coinvolto anche mio padre nei suoi loschi affari legati all'assicurazione delle merci in arrivo dall'Europa. Pare che venissero redatte false perizie e altrettanto false erano le stime dei danni e dei relativi rimborsi agli assicurati, che stavano al gioco. I soldi, una volta arrivati da Londra, venivano equamente divisi: una parte all'assicurato di turno e una parte spartita tra il signor Truman e mio padre. Uno dei cassetti della camera da letto era pieno di sterline inglesi e di dollari etiopici che, per sicurezza, evitava di depositare in banca.

Ed ecco apparire mio padre all'entrata del palazzo assieme alla sua segretaria, una donna molto più giovane di lui, cicciottella e bionda. Dal risciò li vedemmo uscire, prima lei e poi lui, e, con fare circospetto, entrare frettolosamente nella Opel Rekord di colore giallo parcheggiata lì di fronte.

Mia madre ordinò all'autista di spegnere il motore e di aspettare fino a quando quella macchina gialla non si fosse mossa; poi avrebbe dovuto seguirla a distanza. La macchina di mio padre partì di scatto e il taxi Piaggio si mise all'inseguimento. Mi tremavano le gambe e vedevo chiaramente davanti a noi la nuca di mio padre e quella di lei. Percorrevano a velocità sostenuta corso Italia in direzione del bar La Croce del Sud, da dove la strada curvava a sinistra per immettersi su viale Roma. All'angolo del cinema omonimo girò a sinistra e parcheggiò lontano dalle luci dei lampioni. Il risciò spense le luci e, proseguendo molto lentamente per non fare rumore, si fermò proprio dietro l'automobile. Poi accede le luci e il faro illuminò mio padre mentre stava per scambiare il primo bacio con la sua segretaria.

Mi madre mi strattonò fuori e mi urlò addosso con tutto il fiato che aveva in gola:

"Ecco dove va tuo padre! Guarda; guarda come passa il suo tempo con le puttane!"

Ero sconvolto, impaurito e credevo che lui sarebbe uscito dall'auto e che ci avrebbe preso a schiaffi; invece mise in moto e partì lasciando stridere le gomme sull'asfalto. Correvo dietro la sua macchina, attaccato alla mano di mia madre e sentivo le lacrime scorrermi sul viso. Le sue e le mie urla finirono quando rotolammo a terra e vedemmo i fanalini rossi di coda che scomparivano nella notte. Mandò via il tassista eritreo e tornammo a casa a piedi. Ad ogni passo mi sembrava di vedere mio padre sbucare dal nulla e scaricare la sua collera su di me e su mia madre. Tendevo i muscoli, pronto a intervenire in sua difesa, come avevo fatto già molte altre volte in passato.

Quella notte non riuscii a prendere sonno. Mi rigiravo nel letto e pensavo che non avevo studiato geografia e che non avevo fatto neanche gli altri compiti per il giorno seguente. Dal salotto provenivano le voci di alcuni amici di mia madre che, avvisati dell'accaduto, erano accorsi per cercare di calmarla. C'era anche lui: la voce di mio padre era alterata e minacciosa e copriva le altre:

"Si è inventata tutto. Non ero io. A quell'ora ero ancora in ufficio."

Mentiva spudoratamente, come sua abitudine.

L'avevo visto con i miei occhi entrare nella macchina con quella donna bionda, ma non potevo alzarmi dal letto e andare a difendere mia madre dalle menzogne che lui le stava gettando addosso, accusandola di essere fuori di senno e che avrebbe dovuto farsi ricoverare in una clinica psichiatrica.

Avevano chiamato un medico, perché mia madre era svenuta e non riprendeva conoscenza. Le fu somministrato un forte calmante e mio zio si occupò di portarla a letto. Mentre tutti rimanevano ancora in salotto, dalla mia camera sentivo arrivare un flebile lamento che proveniva da quella dei miei genitori, dove mia madre continuava ad agitarsi, nonostante i tranquillanti che il medico le aveva iniettato. Lo aveva fatto anche per evitare una possibile crisi cardiaca, dato che soffriva di problemi di cuore sin da ragazza.

Ad un certo punto un urlo, lacerante, che mi bloccò il sangue nelle vene e che mi fece catapultare giù dal letto e correre nella stanza attigua alla mia. Mia zia era vicina alla finestra e implorava mia madre di non farlo, di pensare a me.

"Non me ne frega niente, di nessuno. Voglio morire. Lasciatemi morire."

Mia madre continuava a urlare mentre aveva metà del corpo a penzoloni dalla finestra. Il marciapiedi, a distanza di tre piani dal nostro appartamento, sembravano attirarla sempre più all'esterno.

"Lasciatemi morire..."

La stanza era ormai piena di gente e vidi mio zio Antonio lanciarsi verso di lei e afferrarla per un braccio. Fu un attimo e mia madre venne letteralmente scaraventata sul pavimento e immobilizzata. Io ero rimasto in piedi sulla porta e piangevo, urlavo, chiamavo mia madre, la supplicavo di non lasciarmi solo; ma nessuno poteva occuparsi di me in quel momento.

Una suora mi accompagnò lungo il cortile di terra battuta fino ad una fila di porte socchiuse, indicandomi quella vicina all'estremità del muro. Faceva molto caldo e il sole africano batteva a picco sui tetti grigi di lamiera, arroventandoli. Un nugolo di mosche mi ronzava intorno mentre, con paura, aprivo la porta di ferro della stanza con le inferriate dove era stata ricoverata mia madre. Era una vera e propria cella, stretta e lunga, e in mezzo un letto di ferro: una tenda color verde chiaro copriva in parte la piccola finestra dalla quale entrava una leggera brezza, mossa dalle foglie degli alberi di eucalipto piantati lungo il muro di cinta del sanatorio. L'avevano legata al letto e gli occhi erano sbarrati, fissi su un punto indefinito del soffitto. Corsi verso di lei e l'abbracciai, la baciai, sulle guance, sulle mani, continuando a chiederle come stava, cosa potevo fare per aiutarla, quando sarebbe tornata a casa. Lei non riusciva né a vedermi, né a rispondere alle mie suppliche; l'avevano imbottita di tranquillanti e le sue labbra erano così secche e i denti di un colore giallo innaturale. Restava immobile, con le mani e i piedi bloccati alle barre laterali della branda di ferro.

"È diventata pazza! Non ho potuto fare altro che ricoverarla qui", mi disse mio padre, mentre portava la sigaretta alle labbra e teneva l'altra mano, come sua abitudine, infilata nella tasca dei pantaloni. Lo odiavo, lo detestavo con tutte le mie forze.

"Domani la imbarcheremo sul volo per Roma, dove saranno ad attenderla i tuoi zii per trasferirla in una clinica di Palmanova. Vedrai che loro si prenderanno cura di lei e presto starà meglio."

Mi lanciai contro di lui e cominciai a colpirlo con i miei piccoli pugni, contro il petto, contro le gambe, contro le braccia e contro tutto ciò che trovavo davanti. Volevo urlargli addosso quanto lo odiavo, ma singhiozzavo e non riuscivo a dire una sola parola. Scappai nel cortile, ma venni subito fermato da mia zia Concetta. Era arrivata pochi giorni prima, mentre Zio Pippo, il suo presunto marito, aveva preferito rimanere a Palermo. Mi teneva per i polsi, dicendo a mio padre che ero indemoniato: "chistu carusu jè'n delinguente" continuò, in stretto accento siciliano, mentre mio padre mi bloccava da dietro e cercava di tranquillizzarmi. Vedevo i suoi occhi, scuri come i miei, che mi fissavano, senza sentimento. Di colpo smisi di piangere e giurai a me stesso che non avrei mai più versato una lacrima per colpa sua. Mi divincolai dalla stretta di mia zia, urlandole con tutto il fiato che avevo in corpo: "e tu si laria comu a morti".

Non vidi mia madre per molti mesi e ogni notte, nel tetro silenzio della camerata del Collegio La Salle di Asmara, la sognai come l'avevo vista nelle foto in bianco e nero che ogni tanto lei mi mostrava: bionda, sorridente, con quel simpatico vuoto tra i due denti davanti. Era bella, raggiante. La immaginavo mentre correva sui bastioni di Palmanova, felice, spensierata, mano nella mano di Gino, il suo primo amore, morto prematuramente per un tumore quando lei era ancora ventenne; lui aveva un viso nobile, serio, triste. Chissà, forse lui l'avrebbe resa felice.

Mi risvegliavo spesso sudato e con il respiro corto; poi non riuscivo più a riprendere sonno e cominciavo ad immaginare a come avrei potuto scappare. Era il periodo delle grandi piogge e in Eritrea, soprattutto durante la notte, i temporali duravano anche un'ora, incessantemente, con gocce così grandi che, in poco tempo, le strade si trasformavano in piccoli fiumi in piena. Fu durante una di quelle notti che presi finalmente la decisione di andarmene. Il rumore della pioggia avrebbe coperto ogni mia mossa. Mi vestii senza far rumore e percorsi in punta di piedi il lungo corridoio che portava alle scale e da queste al refettorio. I tuoni e i fulmini non mi spaventavano mentre, rasente al muro, mi avvicinavo alla finestra dalla quale sarei potuto uscire sul cortile. Mi aiutai con una sedia, dato che la maniglia era molto in alto, e fui investito dal vento e dalla pioggia appena aprii un piccolo spiraglio. Mi arrampicai sul bordo di granito e mi calai all'esterno, per raggiungere di corsa il cancello di ferro battuto. Lo scavalcai senza problemi e cominciai a camminare in fretta, voltandomi indietro per vedere se mi avevano scoperto; poi presi a correre, sempre più forte, senza rendermi conto di dove stessi andando. La pioggia mi colpiva in pieno viso e scendeva sul petto e sulle braccia, fino a scivolare tra le gambe. Pregavo mia madre di aiutarmi a trovare la strada per raggiungere il centro della città. Quando vidi le luci rosse, gialle, blu e verdi poste davanti alle case delle prostitute locali, capii che stavo andando nella direzione sbagliata. Tornai indietro, con il fiato sempre più grosso e, dopo un tempo che mi sembrò interminabile, imboccai il viale alberato che portava sulla via principale di Asmara dove abitavano i miei zii. Mio zio mi voleva molto bene e sicuramente mi avrebbe protetto. Il portone del palazzo era aperto e salii a due a due le scale, fino a raggiungere il quarto piano. Bussai alla sua porta con insistenza; erano le tre del mattino e tutti dormivano. Provai ancora e, non ricevendo risposta, mi lasciai scivolare sull'uscio e strinsi le gambe contro il petto per farmi caldo, sperando che il buio finisse presto. D'un tratto sentii la sua voce dietro la porta d'ingresso:

"Chi è?"

Era mio zio, finalmente.

"Sono io, zio! Giovanni."

Il chiavistello cominciò a scorrere sulla porta di legno e di colpo vidi il suo viso sereno che mi sorrideva. Si mise accucciato vicino a me e cominciò a scompigliarmi i capelli bagnati.

"Che hai combinato? Sei scappato dal collegio?"

Non riuscivo a parlare; battevo i denti per la paura e per il freddo. Mi prese in braccio e, dopo aver richiuso la porta, senza far rumore per non svegliare mia zia, mi portò nel bagno e mi asciugò con un grande asciugamani. Piangeva e mi stringeva al petto.

"Quel bastardo. Non è un padre. Non ha saputo nemmeno essere un padre" mi sussurrava all'orecchio. "Non hai avuto paura, da solo, di notte?" mi disse infine dandomi un bacio sulla fronte.

Mio zio mi guardava attraverso le lacrime che gli riempivano gli occhi.

"No, zio Antonio. Non ho paura di niente e non piango. Non piango più."

Parlammo a lungo. Poi mi prese tra le braccia e mi portò nella camera in fondo al corridoio, dove dormivano le sue tre figlie. Mi adagiò sul letto di mia cugina Nadette e mi coprì con un lembo della coperta...

"Domani ci parlo io con tuo padre. Adesso cerca di dormire", mi disse con un filo di voce, mentre, scompigliandomi i capelli, si avviava in punta piedi verso la porta.

Il volo da Khartoum aveva un ritardo di due ore. All'aeroporto c'erano tutti, parenti e amici e, dato che i voli dall'Italia facevano uno scalo tecnico a Khartoum in Sudan, era normale aspettarsi un ritardo, spesso anche maggiore. Decidemmo di andare a pranzo nel ristorante dell'aeroporto di Asmara, da dove avremmo comunque visto atterrare l'aereo della Sudan Airways. Mia zia parlava a voce bassa ma non abbastanza da non farmi sentire alcune sue frasi, alcune pronunciate con maggiore enfasi, in modo che arrivassero anche al mio orecchio:

"a stari quietu Pietro", "adesso devi stare calmo, soprattutto per Giovanni. È dimagrito molto e ha bisogno di cure e del vostro affetto. Lei è fatta così, cerca di capirla e comportati da buon marito e da buon padre di famiglia."

Mio padre non rispondeva; si limitava ad annuire e guardava nel vuoto, forse in cerca dell'ispirazione su come avrebbe dovuto accogliere mia madre dopo quei mesi di lontananza. Finalmente l'altoparlante gracchiò l'annuncio dell'arrivo del volo Sudan Airways e tutti si affrettarono a finire, chi il dolce, chi il caffè, per attraversare lo stretto corridoio di legno che portava nella sala arrivi dell'aeroporto. L'aereo arrivò qualche minuto dopo e, dopo aver percorso a ritroso l'unica pista d'atterraggio, si fermò davanti alla costruzione di legno e lamiere, in stile coloniale. Dalla scaletta cominciarono a scendere i primi passeggeri, perlopiù italiani che tornavano dalle vacanze in Italia. Guardavo fisso verso l'aereo per vederla per primo, ma la riconobbi solo quando scese l'ultimo gradino della scaletta di ferro che avevano appoggiato alla carlinga dell'aereo: aveva il viso scarno e gli occhi infossati. Cercava di sorridere, mentre mi veniva incontro, ma le sue labbra erano tirate e lo sguardo lontano e assente. Aveva circa sei anni più di mio padre e ora la differenza di età si notava davvero.

"Come stai, amore mio? Quanto mi sei mancato."

Trattenevo con difficoltà le lacrime, mentre l'abbracciavo stretta e assaporavo il piacere di sentire la sua mano calda sulla mia guancia. Senza darle il tempo di salutare nessuno, la presi per mano e scesi i tre gradini che portavano al parcheggio: lo stesso dove, molti anni dopo, avrei fatto salire Sandra sull'Alfa Romeo spider di mio padre.

Il Toppo Wasserman

A scuola ci andavo un giorno sì e tre no; poco prima di Natale, il preside convocò mia madre per un colloquio. Conosceva bene la nostra famiglia e la situazione in cui ci trovavamo, così le suggerì una soluzione che potesse consentirmi una vita più tranquilla e, soprattutto, che mi evitasse di perdere l'anno scolastico. Anche i miei zii, sia quelli materni che paterni, erano dello stesso avviso e convinsero mia madre a trasferirsi nuovamente a Palmanova per farmi completare l'anno scolastico in una scuola dove avrei potuto contare su un numero ristretto di alunni e su lezioni private.

Subito dopo Natale, rifacemmo i bagagli e ci imbarcammo ancora una volta sulla nave per ritornare in Italia.

Quella volta la nave che ci attendeva al porto di Massawa era enorme e aveva una grossa scritta sulla prua: Sidney. Sulla cima svettava un immenso fumaiolo dal quale usciva del fumo bluastro e lungo tutta la fiancata file di oblò che erano anche visibili, però in numero minore, su ognuno dei tre ponti. A tre quarti dello scafo, verso la prua, c'era il ponte di comando dove si trovavano anche gli alloggi del comandante, e quelli degli ufficiali e dei sottufficiali. Lo ricordo perché, pochi giorni dopo essere salpati, il comandante ci aveva invitato a visitare il grande ponte di comando.

La plancia, come l'aveva chiamata il sottufficiale al comando che ci aveva accompagnato nella visita,era un locale enorme, o almeno così sembrava ai miei occhi di ragazzino.

Da lì il comandante governava la sua nave. Che emozione; potevo vedere la prua, molto più grande di quella di dove andavo a guardare gli spruzzi del mare sui piroscafi che avevo visto fino a qual momento: era come una balconata che sporgeva in avanti rispetto alla struttura complessiva e il sottufficiale mi spiegò che serviva anche agli addetti al servizio di ponte per avere una visuale il più possibile ampia dell'orizzonte circostante, per poter così navigare con sicurezza e gestire tutte le attività relative alla navigazione. Gli ufficiali preposti e lo stesso comandante, al momento di necessità, avrebbero avuto maggiori facilità di manovra, sia durante la navigazione che nelle acque portuali.

In quella sala vi erano le varie dotazioni nautiche e le apparecchiature, molte già allora elettroniche, utili per la navigazione: timone, bussola, il quadro per il controllo dei motori e altri strumenti, ad esempio l'ecoscandaglio, il radar, la radio e altri apparecchi di cui non sapevo assolutamente a cosa servissero, ma dai quali non riuscivo a distaccare lo sguardo.

In pochi minuti avevo imparato molte più cose di quelle ascoltate per ore e ore durante le lezioni a scuola e ricordavo a memoria i nomi di tutti gli strumenti che mi aveva mostrato il sottufficiale e i termini nautici che fino ad allora non avevo mai sentito.

"Mamma, lo sai cosa è il vento di ponente?", chiesi voltandomi, pensando che lei fosse lì con me, ma mia madre non c'era. La cercai dietro le varie apparecchiature della plancia inutilmente.

Un ufficiale, che era intento a scrutare l'orizzonte, ci disse che l'aveva vista andare via con il comandante, e che sarebbe sicuramente tornata a momenti.

Passò più di mezz'ora prima che sentissi la sua voce e la sua risata arrivare dall'ingresso del ponte di comando. Era raggiante e rimasi a guardare, un po' sorpreso ed incredulo, il suo sorriso. Non mi ricordavo di averla mai vista così contenta: sembrava un'altra donna.

Nei giorni seguenti, per cena, eravamo sempre invitati al tavolo del comandante e vedevo mia madre parlare senza sosta con lui, fumare e ridere, fare delle battute – anche stupide – e toccarsi reciprocamente le mani e i fianchi, come se si conoscessero da sempre e fossero soli in quella sala, dove altri ufficiali consumavano i pasti assieme a noi. Molte volte, di notte, mi svegliavo nella cabina doppia che aveva prenotato mio padre in prima classe e accendevo la luce per scendere dalla scaletta appoggiata al letto a castello e andare in bagno. Non avevo idea di che ora fosse, ma tutte le volte mia madre non c'era, anche se ricordavo che eravamo andati a dormire insieme e che lei aveva spento la luce nel darmi la buonanotte. Una notte mi vestii e andai verso il ponte di comando. Sapevo dove erano le cabine degli ufficiali e trovai subito il lungo corridoio con le varie porte dello stesso colore della parete e in fondo, al centro, una porta più grande di legno, con la maniglia in ottone e la scritta: "Comandante".

Mi avvicinai piano alla porta e provai ad aprirla, ma era chiusa dall'interno. Appoggiai l'orecchio e sentii distintamente la voce di mia madre; alternava il nome del comandante ad un gemito e continuò a farlo per molti minuti, che a me sembrarono un'eternità.

A Napoli prendemmo il treno per Trieste insieme al comandante della nave che era di proprietà del Lloyd Triestino. Anche lui era originario del Friuli, se non ricordo male di Pordenone e tornava a casa dopo quasi due mesi di navigazione. Aveva voluto comprare i biglietti del treno per tutti e stavamo viaggiando insieme in uno scompartimento di prima classe.

Mi ero appisolato e al risveglio loro erano nel corridoio davanti alla porta chiusa, appoggiati al finestrino e fumavano una sigaretta. Dopo aver schiacciato la sua in uno di quei portacenere puzzolenti di alluminio, lui l'abbracciò da dietro mentre io stavo per aprire la porta scorrevole che dava sul corridoio e lei si divincolò, controvoglia, dicendogli in dialetto:

"vonde, il putel varda!" (smettila, il bambino ci guarda).

Da quel giorno cominciai ad avere un incubo costante: ogni notte sognavo di essere in un labirinto fatto di canne alte e correvo cercando l'uscita, ma ogni volta, sul percorso che avevo appena fatto, nascevano altre canne ed io sentivo solo la voce di mio padre e la risata di mia madre che si perdevano il quel mare di canne spostate da un vento freddo, premonitore di guai. Lui le urlava che sapeva tutto del viaggio, delle cene eleganti, del comandante e strillava anche contro di me: "non hai nemmeno saputo badare a tuo madre". Lei continuava a ridere, sempre più forte, e gli rispondeva: "vienimi a prendere, dai" e poi "corri su, fai in fretta, così vedi che non sono più sola".

A Palmanova avevano già organizzato tutto: era stato deciso per il collegio Toppo Wasserman di Udine, dove aveva studiato trent'anni prima uno dei miei zii che non era stato certo un bambino modello e quindi faceva al caso mio.

Disciplina e rigore erano il motto di quell'istituto, situato in Via Gemona: "il Toppo", come veniva chiamato. Era stato costruito agli inizi del 1700 come residenza nobiliare di un famoso conte del Friuli e in seguito venduto ad un altro nobile, Giuseppe Garzolini, come residenza per sé e per la moglie e dal quale prese poi il nome di Palazzo Garzolini. Nel 1900 divenne sede del Collegio Toppo-Wassermann, quando il Comune e la Provincia di Udine poterono acquistare l'edificio e trasformarlo in un convitto maschile per bambini e ragazzi.

I miei zii erano andati a parlare con il direttore prima del nostro arrivo e lui si era impegnato a farmi recuperare le lezioni perse; era certo che, nel giro di poco tempo, mi sarei allineato con il programma, anche se erano passati quasi tre mesi dall'inizio dell'anno scolastico. Inoltre, cosa non trascurabile per la famiglia bigotta di mia madre, l'onore della famiglia era salvo e nessun in paese avrebbe dubitato o spettegolato che era stata abbandonata dal marito. Ufficialmente lei era a Palmanova per seguire i miei studi in collegio, dove mio padre, a loro dire, mi aveva iscritto per farmi avere un'educazione più idonea rispetto alle scuole poco raccomandabili di Asmara.

La divisa grigio topo e la cravatta nera mi facevano sembrare molto più grande della mia età; a maggio avrei compiuto dieci anni, ma il mio viso, perennemente imbronciato e con gli occhi dall'espressione triste, mi davano un'aria già da adolescente. Vollero fotografarmi vicino a mio cugino Federico che era appena rientrato dall'Accademia di Modena ed aveva un'impeccabile divisa da cadetto, con il chepì nero lucido, le mostrine di colore viola e lo spadino dorato con il manico d'avorio o di madreperla, questo non lo ricordo bene, che pendeva da un fianco, fino quasi a toccare terra. Dopo la foto, mi caricarono sull'utilitaria di mio zio e partimmo per Udine.

Faceva freddo e i campi, ai bordi della strada alberata, erano imbiancati dalla brina. Dopo mezz'ora eravamo davanti al grosso portone di legno scuro del collegio. Era una giornata uggiosa e il cielo aveva il classico colore grigio del nord.

Mi liberai dalla mano di mia madre e cominciai a correre lungo il marciapiedi, il più lontano possibile da quella tetra costruzione che tanto assomigliava ad una caserma. Svoltai al primo angolo e continuai a correre in mezzo alla gente, ma la corsa durò poco; mi raggiunsero dentro un bar dove avevo cercato di nascondermi e fui riportato davanti all'entrata del convitto. Questa volta la mano mi venne tenuta ben stretta, fino quasi a spezzarmela, mentre mi dimenavo e urlavo che non volevo andare in collegio, che volevo tornare a casa da mio zio Beppi.

Il direttore cercava di convincermi, ripetendo che avevo avuto l'onore di essere accettato in una delle più prestigiose scuole italiane del momento. Mi accorsi che non avevo alternative, così mi calmai e lasciai che mia madre mi accompagnasse fino al dormitorio, dove aprì la valigia e cominciò a sistemare la mia roba in uno degli armadietti di ferro lungo la parete davanti alla fila di letti, forse una ventina, ordinata con precisione austroungarica. Ogni letto aveva alla sua sinistra un comodino, anch'esso di ferro, con un cassetto dove mia madre mise lo spazzolino da denti, il dentifricio, il pettine e il portasapone, acquistati il giorno prima, raccomandandomi di lavarmi i denti ogni mattina e tutte le sere. Li aveva comprati perché erano nella lista che aveva ricevuto dal collegio, dove veniva elencato tutto ciò che gli alunni avrebbero dovuto avere in dotazione, oltre a magliette, mutande, calze ed altro con cucita sopra un'etichetta con nome e cognome. Ad Asmara non mi aveva mai dato nessuno uno spazzolino da denti e tantomeno una spazzola per i capelli che portavo sempre cortissimi. Me lo ricordavo bene!

"Vedrai, ti piacerà. Ci sono tanti compagni della tua età e poi io verrò a trovarti ogni settimana e una volta al mese, il sabato e la domenica, potrai venire tu a Palmanova."

Mi diceva queste parole senza però voltarsi verso di me, per non farmi vedere che stava piangendo.

Non studiavo e mi ribellavo ad ogni disciplina: arrivavo tardi di proposito all'appello mattutino per la prima colazione, ero l'unico ad attardarsi nei lavatoi prima di andare a letto e l'ultimo ad alzarsi la mattina, rispondevo male ai professori e, se venivo rimproverato dai professori davanti ai miei compagni, giravo loro le spalle masticando qualche parolaccia ad alta voce in modo che potessero sentirla tutti. Non avevo voglia nemmeno di mangiare e, per sfuggire alle punizioni inflitte a coloro che lasciavano il cibo nel piatto, nascondevo pezzi di carne, patate e altro nelle tasche dei pantaloni e della giacca, svuotandole poi tra gli alberi che recintavano il cortile.

Dopo qualche giorno mia madre fu avvertita di quanto stava accadendo e venne a trovarmi. Parlò prima con il direttore, Valerio Valeri – come potrei dimenticare un nome così ridicolo – e poi mi portò in giro per Udine. Qualsiasi cosa io le chiedessi me la comprava: pasticcini, il gioco della pulce, delle caramelle alla violetta e dei meravigliosi pattini a rotelle. Li avevano tutti al Toppo, meno che io.

Da quel giorno cercai di comportarmi come un alunno modello, adattandomi allo stile di vita degli altri miei compagni: studiavo, andavo sui pattini, facevo il bagno agli orari previsti, andavo a messa, ero sempre puntuale agli appelli e non rispondevo mai male ai professori.

Ma il direttore mi stava con fiato sul collo e controllava ogni mia mossa. Al refettorio non mi staccava gli occhi di dosso e, prima dell'inizio delle lezioni, voleva sempre controllare i miei quaderni per accertarsi che avevo fatto tutti i compiti. Ben presto cominciai di nuovo a ribellarmi. Non sopportavo quel essere preso di mira da mattina a sera e ogni momento pensavo al modo di riuscire a scappare da quelle mura che mi tenevano prigioniero. Decisi di farlo durante una gita al celebre Castello; approfittando della distrazione dell'insegnante, scappai in mezzo alle stradine della città vecchia, sperando di trovare un portone aperto dove rifugiarmi, inseguito dal giovane professore di italiano che correva più veloce di me. Non ce la feci nemmeno quella volta.

In famiglia erano tutti preoccupati per il mio comportamento e temevano che prima o poi avrei cercato di nuovo di scappare, ma soprattutto erano in pensiero per la mia salute; avevo perso peso e continuavo a dimagrire. Il direttore mi aveva fatto visitare da un medico che però non aveva riscontrato nulla di anomalo, salvo che il mio peso era di gran lunga inferiore a quello di un bambino della mia età e della mia altezza. Secondo lui non mangiavo a sufficienza. Il direttore gli assicurò che controllava personalmente, ogni giorno, che non lasciassi nulla o quasi nel piatto. Non si era mai accorto che nascondevo il cibo dentro pezzi di carta che poi infilavo nelle tasche dei pantaloni o della giacca. In effetti della mia salute a lui importava ben poco; la verità era che non sopportava più il mio comportamento ribelle che, a suo dire, influiva negativamente sull'educazione dei miei compagni di classe e di camerata. Così, a distanza di meno di due mesi dal giorno che avevo indossato quella tetra divisa color grigio topo, chiese a mia madre di ritirarmi dalla scuola per motivi di salute e fui riportato a Palmanova.

Mio zio Beppi aveva parlato diverse volte con mio padre e l'aveva convinto, per il mio bene, di farci tornare ad Asmara. Avrei potuto riprendere gli studi al Collegio La Salle dove il preside, Fratel Marcello, anche lui nato a Palmanova, era un suo vecchio compagno di scuola e si era impegnato a seguirmi personalmente. Mio padre non era necessario che vivesse con noi e su questo punto non ci sarebbero stati problemi da parte di mia madre; gli aveva assicurato che sarebbe andata a stare temporaneamente da una sua amica, in attesa di trovare un piccolo appartamento per noi due. Anche mia zia Rosetta intervenne con il fratello per farlo ragionare e per convincerlo che era giusto che io vivessi vicino ad entrambi i miei genitori e che, sia lui che mia madre, avrebbero dovuto fare uno sforzo e comportarsi in modo civile, senza più scenate e comportamenti violenti, soprattutto per il mio bene. Alla fine mio padre si convinse a farci tornare ad Asmara.

Agli inizi di marzo ci imbarcammo sulla nave gemella del Diana, il Tripolitania, diretta a Massaua.

Gli oltre venti giorni di navigazione mi sembrarono un'eternità. Fino allo stretto di Suez il tempo fu pessimo e il mare era sempre molto mosso. I continui temporali mi costringevano a restare chiuso nella maleodorante camerata con i letti a castello assieme a mia madre, che non faceva altro che fumare una sigaretta dietro l'altra, inveendo su tutto e su tutti, ma soprattutto su di lui, sulla persona dalla quale si era sentita tradita, umiliata: mio padre. Rimpiangevo il viaggio di andata in Italia con quella nave grande e comoda, di cui ricordavo principalmente l'odore sulle mani di mia madre dell'acqua di colonia che il comandante usava troppo abbondantemente.

I passeggeri imbarcati a Napoli erano pochi e tra loro nemmeno un bambino con cui giocare. Mi annoiavo terribilmente e questo contribuiva ad aumentare la tristezza che sentivo dentro, l'angoscia nel pensare che di lì a poco sarei stato costretto a vivere nuovamente una situazione familiare che non mi ero certo cercato e che tanto meno avevo sperato toccasse proprio me così da vicino.

Appena entrati nel Mar Rosso, il tempo migliorò e il cielo si fece di un azzurro intenso, mentre il mare diventò piatto e luccicante. Passavo ore ed ore sulla punta della prua a guardare l'acqua spumeggiante che scivolava lungo le fiancate della nave e ne percepivo il suono, l'odore, il movimento. Ero solo con me stesso, in pace; tutto il resto sembrava appartenere ad un brutto sogno ad occhi aperti che avrei voluto cancellare, ma eccolo riaffiorare non appena le coste dell'Eritrea si cominciarono ad intravedere all'orizzonte. Il porto di Massaua era lì, a poche ore di navigazione.

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